Nel 1912 l’architetto viennese Rudolf M. Schindler scriveva:
“Il nostro modo efficiente di usare i materiali ha eliminato la massa strutturale e plastica. L’architetto contemporaneo concepisce la <> e la forma con soffitti e pannelli parete. La progettazione architettonica ha adottato lo spazio come sua materia prima e gli spazi articolati come suo prodotto.
A causa della mancanza di massa plastica, la forma degli spazi interni definisce l’esterno della costruzione. Perciò il prodotto primitivo di questo nuovo tipo di operazione è la <>. L’architetto ha finalmente scoperto il mezzo espressivo della sua arte: LO SPAZIO”.
L’architettura intesa, quindi, non più come “scultura” ma come espressione di spazi finiti ed omogenei, le scatole, organizzati attraverso la composizione.
Schindler, che in Europa aveva avuto rapporti diretti con Adolf Loos e Mies Van Deer Rohe, nel 1914 si trasferì in America, dove per sette anni fu uno dei collaboratori di Wright, e dal 1920 fino alla sua morte ebbe un suo studio indipendente in California.
In aperta antitesi nei confronti del maestro americano, il quale considerava Schindler un dilettante, il suo lavoro giovanile è sempre rimasto in bilico tra lo Zig Zag Moderne, il pre-colombiano e de Stijl, o nel sintetico International Style espresso nei lavori realizzati in collaborazione con un altro emigrante eccellente: Richard Neutra.
L’Architettura moderna, scrisse Schindler nel 1934, è iniziata con Mackintosh in Scozia, con Otto Wagner a Vienna e con Sullivan a Chicago; la perfetta conoscenza delle avanguardie, messa a confronto con la sua opera, testimonia non una indecisione stilistica, ma una precisa volontà di rinuncia al linguaggio, alla forma precostituita e fine a se stessa, e alla riconoscibilità di uno stile, caratteristiche e punti di forza della sua maturità.
Naturalmente, proprio a causa di tali rinunce, materia prima per un architetto che aspira al successo, non ebbe le dovute riconoscenze storiche dei suoi illustri maestri e dello stesso Neutra.
La migrazione di architetti europei verso l’America, tra i quali Mies e Gropius, e la fusione con la cultura delle Prairie House prima e le Usonian House poi, diede vita a un filone di architetti che “hanno saputo rendere più raffinata la semplicità” anche attraverso l’uso di nuovi materiali che ne caratterizzarono la composizione.
Per la prima volta nella storia dell’Architettura, se si eccettua l’episodio isolato che fu rappresentato da Wright, lo scenario di riferimento per le avanguardie, divenne quello statunitense che, se non altro, affiancò quello europeo dal quale deriva.
Gregory Ain, Rodney Walker, Craig Ellwood, Rafael Soriano, John Lautner, Pierre Koenig, Albert Frey, William F. Cody e Stewart E. Williams, sono solo alcuni tra i protagonisti che hanno generato le premesse per quella che sarebbe stata la definitiva frantumazione della forma omogenea operata da Frank Gehry.
Tappa fondamentale della svolta americana nell’architettura moderna che organizzava il dopo Wright, fu il “Case Study House Program” promosso da John Entenza, direttore della rivista californiana “Arts & Architecture”, che nel 1945 diede nuova linfa al Modernismo americano, con il significativo contributo di architetti come Ray e Charles Eames, Thornton Abell, A. Quincy Jones, Frederick E. Emmons ed Eero Saarinen, oltre ai già citati Richard Neutra e Craig Ellwood.
I principi messi in campo con il padiglione di Barcellona del 1929 e la casa Farnsworth, proprio del 1945, insieme a materiali quali lamiere metalliche grecate e ondulate, pannelli di legno compensato, alluminio e putrelle di ferro, ispirarono la nuova concezione del costruire che arrivò intatta fino alla Steeves house, opera giovanile e cruciale di Gehry (1959).
In che modo un architetto europeo, italiano in particolare, possa fare tesoro di questo enorme patrimonio del pensiero, resta un’ingognita con diverse variabili, sopratutto se si pensa che negli anni trenta anche l’Europa e forse meglio l’Italia, ha prodotto architetture di grande qualità.
In conseguenza del Futurismo visionario di Antonio Sant’Elia, Giuseppe Terragni, Adalberto Libera, Giuseppe Vaccaro, Pagano, in collegamento diretto con il Modernismo internazionale, seppero assegnare alla “scatola” il valore aggiunto dell’italianità, attraverso l’uso di antiche regole geometriche insite nel DNA dei popoli del Mediterraneo. L’involucro denudato di ogni memoria stratigrafica degli elementi, ritrovò le ragioni del proporzionamento grammaticale.
Ma le ragioni di un regime che volle fortemente la reintroduzione del magniloquente e del monumentale, preso in prestito in blocco dalla romanità, finirono per soffocarne le potenzialità e gli sviluppi futuri.
Indotti dalla forzatura politica, troppo presto si diede per “spacciato” il Razionalismo italiano e ritengo, concludendo questo breve escursus storico, che si debba ripartire proprio da dove avevano dovuto, ancora più prematuramente, abbandonare gli ultimi grandi teorici puri dell’Architettura italiana, Pagano e Terragni.
Il particolare tema della sepoltura, considerato da Adolf Loos arte, così come il monumento, reso ancora più intrigante dal contemporaneo duplice incarico all’interno della stessa necropoli, è l’oggetto di alcune riflessioni che vorrei fare in conseguenza alle premesse storiche ed al relativo contesto di contemporaneità in cui si inseriscono.
L’approccio è completamente diverso a causa di due fondamentali diversità: la prima avrebbe dovuto avere uno spazio interrato di 220 centimetri e, a differenza dell’altra, avrebbe avuto solo due prospetti a vista data l’appartenenza a un lotto composto da quattro cappelle.
La seconda avrebbe avuto tre prospetti a vista senza il livello interrato.
L’assenza di almeno un terzo prospetto e la forte vocazione alla spazialità interna con ben sei metri e venti centimetri in altezza, se si sommano i quattro metri fuori terra concessi dal regolamento comunale, hanno indotto la concentrazione sullo spazio interno.
Non di secondaria importanza le ridotte dimensioni planimetriche di entrambe, 350 x 300 centimetri, che rendevano difficilissima la coesistenza di elementi diversi dall’ingombro dei loculi.
Le ristrettezze dimensionali sarebbero state le virtù di una cappella gentilizia, la prima, che il visitatore avrebbe percorso solo in senso altimetrico, trovandosi inesorabilmente “ingabbiato” subito dopo averne oltrepassato l’ingresso e, peggio, dopo averne percorso la rampa strombata che conduce ripidamente all’interrato. Qui i muri toccano, sempre più insistentemente, il corpo di chi scende quasi a pretenderne la fusione; lo stretto passaggio di 48 centimetri, invisibile nella prospettiva in penombra, ed in controluce rispetto al fascio che arriva dall’alto (che è anche filtrato dalla struttura in ferro), è l’unica via di scampo.
La sensazione, l’emozione, sono quelle, indimenticabili, delle sepolture egizie: grandi camere sepolcrali raggiunte tramite strettissimi cunicoli in discesa.
Dalla quota inferiore è visibile tutto lo spazio interno, data l’eliminazione del solaio intermedio e la sua sostituzione con una grata in acciaio a maglie larghe.
La grata, a quota del marciapiede, non arriva alla parete verticale dei loculi, formata dalla continuità delle lastre in Nero assoluto intervallate dalle putrelle in acciaio, ma si ferma alla stessa distanza stabilita dal passaggio sottostante (48 centimetri).
Il visitatore non può, quindi, portarsi con il corpo a contatto delle lastre, ma può solo toccarle con le mani.
E’ lo spazio sacro della cappella che, in quanto tale, non potrà essere occupato da elementi estranei (portafiori, portacandele, lumini, ecc.). Uno spazio sacro laico, perché privo di qualsiasi icona religiosa.
In quanto spazio sacro laico, contiene gli elementi del dubbio e l’assenza delle certezze tipiche della fede: il vuoto infinito, iconicamente rappresentato da due specchi collocati a terra e al soffitto uno di fronte all’altro.
L’assenza di aperture sulle uniche due pareti esterne, provoca una condizione di semioscurità, attraversata dalle linee di luce che filtrano attraverso una miriade di fori praticati nelle lastre metalliche di chiusura orientate a est. Nelle ore pomeridiane la luce filtra solo attraverso il “canale” verticale di fronte alla rampa.
La parete di chiusura, all’esterno, nella parte non caratterizzata da elementi quali la porta di accesso e le lapidi, è completamente liscia e porta le tracce del suo dimensionamento geometrico.
Il cosiddetto “Latercolo pompeiano” sull’ingresso “inizia” il fruitore, vivo o morto, alle nuove regole spaziali di quel “non luogo” interno azzerandone le memorie.
La seconda cappella, dal punto di vista dell’approccio progettuale, date le richieste della committenza e le caratteristiche del luogo, era l’opposto della prima.
L’impossibilità a stabilire una relazione tra il fruitore, vivo, e lo spazio interno e la presenza della terza parete, hanno determinato la possibilità di una identità volumetrica prevalente rispetto alla prima.
In questo caso le sepolture in calcestruzzo sono profondamente e laicamente (anche in questa seconda cappella non vi sono icone religiose) radicate alla terra. La radice profonda è sottolineata dal pavimento che sprofonda nel suolo di un numero di centimetri incoerente con la discesa di un gradino (21 centimetri) ma “naturalmente” bloccato su una misura proporzionale alla composizione.
L’insolita, alta, discesa e la sensazione di squilibrio che propone, giustifica l’assenza di un secondo gradino.
L’ingresso ai dieci loculi è sottolineato e impreziosito da una cornice d’oro continua, che mantiene le dieci lapidi in ardesia levigata sulla quale sono incisi i nomi dei defunti.
La copertura delle sepolture è di forma quadrata in omaggio alla albertiana matrice di tutte le composizioni.
Gli antichi usarono, nell’architettura sacra, la geometria per avvicinare l’uomo a Dio e in questo caso, proprio attraverso l’uso della geometria lo spirito dell’uomo che muore ritorna a far parte della natura e quindi dell’Universo, in coerenza con la visione laica del mondo.
La scatola semitrasparente di Onice, che si distacca e si allontana dalla radice terrena, e che custodisce lo spirito dei defunti, è un solido sacro in proporzione Aurea. Le scintillanti “cesure” di acciaio inox che dettano le regole grammaticali della costruzione della scatola ne denunciano il prezioso contenuto.