SAS Royal Hotel
Testo di Renato Capozzi
(tratto da R. Capozzi, L'esattezza di Jacobsen, LetteraVentidue, Siracusa 2017)
La mole del SAS si vede sempre da lontano ma non domina il paesaggio nonostante i suoi 70 metri e 22 piani. Aveva, allora, qualcosa di familiare; ricordava la Lever House di Gordon Bunshaft dei SOM e molte costruzioni facenti parte del “Piano delle cinque dita”; ma c’era qualcosa di molto diverso. Erano diverse le proporzioni, erano diversi i colori dei vetri, la posizione della torre rispetto al basamento e poi c’era una strana linea nera che la solcava sin sotto il coronamento.
Di profilo si presenta come una T rovescia con il basamento scuro, inciso da una lunga finestra a nastro, sollevato dalla strada per consentire l’arretramento della parete vetrata d’ingresso. Uno di quei casi, per citare Le Corbusier, in cui «la verticale suggella il senso dell’orizzontale».
Sul fronte la torre si allontana dal bordo fino quasi a smaterializzarsi e confondersi col cielo chiarissimo di quelle latitudini, simile ad alcune atmosfere ritratte da Luigi Ghirri, eccezione fatta per quella misteriosa e nettissima fenditura scura. Il basamento si articola in due parti distinte: il terminal a corte coperta, una sorta di lichthofe, e l’atrio prezioso dell’albergo. La lobby assume il principio dell’ipostilo diradato al centro per far posto alla grande scala elicoidale – l’unica protagonista che l’abita – su cui, quasi inspiegabilmente, poggia la torre. Ancora una scala “appesa a tiranti” come a Rødovre e come farà, in maniera ancor più ardita, negli stessi anni Saarinen nella scala a stralli filiformi inclinati del General Motors Technical Center a Warren. La scala del SAS, di converso, una sottile lamina bianca ripiegata, a noi ricordò, magnificata, la colonna elicoidale degli uffici Jesperen di tre anni addietro e vista pochi giorni prima. L’albergo realizzava un programma notevolmente complesso ricondotto a ordine e misura, a una severa perfezione modulare scandita da alte colonne bianche smaltate su fondi scuri, ampie vetrate, materiali preziosi – dal marmo al legno – interni curatissimi, arredi disegnati ad hoc che avrebbero fatto storia. Ma cos’era quella fenditura? Era molto difficile capirlo stando nella piastra: bisognava salire nella torre. Si poteva visitare la mitica “room 606” ancora intatta con gli arredi originali: le sedie a uovo, il lambrino attrezzato con i comodini, i cassetti, i ribaltini in legno con specchio inguainato da ripiani in vinile azzurro, il letto schermato dalla tenda su binario, le lampade, la moquette... Ma da quell’unica camera non si sarebbe capita la ragione della fenditura. Bisognava guardare la pianta, non fu facile. Trovai solo dopo qualche giorno un libro economico ma utilissimo su Jacobsen di Solaguren-Beascoa e solo allora capii quel “trucco” da maestro. La torre che sormonta la piastra consta approssimativamente di sette moduli per 15,5 punteggiati da una struttura con campate quadrate di 3x3 e arretrata di due moduli sui lati lunghi e di uno e 2/3 sui lati corti. Gli ascensori, che al piano terra sono posti entrando a sinistra serrati da due spessissimi setti cui corrispondono sul lato opposto altrettanti setti più corti, sono fronteggiati nella torre da una scala di servizio circolare, dai servizi di piano per il personale connessi da corridoi interni. Percorsi interni che conducono a una piccola scala d’emergenza che arretra il suo filo producendo quella inaspettata, ma necessaria, fenditura d’ombra. Una linea nera che riesce a rendere più snella la lama, a segnalare la presenza del nucleo interno disassato, fissando proporzioni e misure delle due parti laterali: due quadrati sovrapposti contro sei allineati in verticale. L’altra facciata senza il solco, naturalmente, definisce un rettangolo aureo.