B&B La Grande Casa
Ceci n’est pas une fenêtre
Un’architettura degli interni che esalta il rapporto visuale con il luogo e compendia un proficuo dialogo tra progettisti e artisti
Progetto: arch. Luigi Marastoni, arch. Loretta Sacconelli
Oggigiorno, diciamoci la verità, la parola “paesaggio” viene citata con una frequenza quasi ossessiva. Tanto da risultare, talvolta, irritante. Convegni, eventi, festival, saggi ed articoli non fanno che parlarne, nelle più varie e fantasiose declinazioni, più o meno pertinenti: scopriamo “paesaggi in movimento”, “paesaggi condivisi”; “paesaggi dello scarto” e “del riciclo”; “paesaggi interiori”, “paesaggi sonori” e gli immancabili “paesaggi del gusto”. La faccenda non può che suscitare una certa inquietudine. E qualche sospetto.
Poiché, se da un lato questo fenomeno incoraggia l’impressione che la nostra società (e mi riferisco, in primo luogo, al contesto nazionale) abbia ormai maturato un sensibilità diffusa sull’argomento – con buona pace dei vari Antonio Cederna, Eugenio Turri, Salvatore Settis e delle loro infaticabili battaglie culturali – dall’altro, insinua il ragionevole dubbio che se ne parli con un atteggiamento ingenuo, se non scaramantico; consapevoli dell’immenso patrimonio storico, architettonico, artistico e naturale che nell’ultimo secolo abbiamo perduto, insieme alla nostra identità, con la diffusione di modelli culturali sempre più omogeneizzati ed oggi, globalizzati. O peggio ancora con malizia ed ipocrisia, per nascondere qualche cattiva intenzione o qualche altrettanto cattiva azione, perlopiù riconducibili al “grande ventre” di una speculazione immobiliare bulimica e irresponsabile.
Senza voler impartire lezioni a nessuno, su cosa sia o non sia e su cosa rappresenti la nozione di “paesaggio” nel contesto contemporaneo, possiamo tuttavia riconoscere con un certo sollievo come questo progetto di Luigi Marastoni e Loretta Sacconelli sia in grado di riconciliarci con quella che riteniamo esserne la natura e l’essenza. Che ha a che fare in primo luogo con l’aisthesis, con la percezione e con la sensorialità. Anzi, con un senso sopra a tutti gli altri: la vista! La visione, la “veduta”... In quanto esito dell’incontro tra l’io, soggettivo, ed il mondo. Ma che, proprio per questo, non può permettersi di perdere il contatto con la sua materialità, con la “fisicità”.
Perché è proprio in questa relazione tra l’occhio e la mente, e viceversa, che il nostro mestiere di architetti o, quantomeno, gli architetti della mia generazione – per quanto in crisi d’identità e con seri problemi di riconoscimento sociale – ha fondato la propria “sapienza” e le proprie prerogative.
Certo, non è qui in discussione quanto il paesaggio – perlomeno quello europeo e quello italiano, in particolare – sia prodotto della natura e dell’uomo, esito del concorso di fenomeni visibili ed invisibili, come sottolinea la Convenzione europea del paesaggio (Firenze, 2000) e come ha riconosciuto l’Unesco, allorché ha avviato un processo per la salvaguardia del ‘“patrimonio culturale immateriale” (Intangible Cultural Heritage) che ha trovato compimento nel 2003, con la ratifica dell’omonima Convenzione.
Ma non per questo possiamo perdere di vista come tali contenuti intangibili assumano un valore di testimonianza, in termini di paesaggio e patrimonio culturale, solo in quanto generatori di processi in grado di sedimentare permanenze, tracce sull’assetto topografico del “territorio” (concetto per sua natura astratto e, per certi versi, inerte). André Corboz tanti anni fa (1983) parlava di un palinsesto, incessantemente cancellato e riscritto.
Il luogo stesso, nel caso qui in esame, rappresenta qualcosa di non comune, proprio grazie alle sue prerogative di natura paesistica. È infatti opinione assai diffusa (seppur poco attendibile dal punto di vista etimologico) che lo stesso toponimo “ingannapoltron” abbia a che fare con la straordinaria visibilità del borgo di San Giorgio che si erge intorno all’antica pieve romanica su un poggio panoramico, tanto da sembrare «raggiungibile con pochi passi».
E l’intervento illustrato in queste pagine riesce a focalizzare quello che può talvolta sfuggire, qualora non risulti ben chiaro dove collocare il confine labile tra architettura e paesaggio. Ovvero il ruolo, il significato e il valore delle relazioni di “scala”.
Il progetto, sostanzialmente un’architettura d’interni, opera per esaltare il rapporto visuale con il luogo, restituendo una dimensione “sospesa” tra borgo e paesaggio: San Giorgio il borgo di pietra, la Valpolicella tra cave di marmo e vigneti, le colline moreniche con il lago di Garda sullo sfondo. La disposizione su due piani, con le zone di soggiorno e le camere sul perimetro permette continue relazioni visive con il territorio, con l’area vasta. Le finestre e il tetto, gli elementi di soglia (in-between) diventano generatori del progetto, nella costruzione di una dimensione “contemplativa” che rende ogni stanza unica e, realmente, esclusiva: il davanzale si estende per diventare un piano continuo d’imposta che disegna la nuova camera, il letto, le sedute, l’armadio e il “deposito” bagagli.
L’oscuramento delle finestre viene risolto con pannelli opachi interni, su cui sono dipinti in copia i paesaggi che vediamo dalla camera: la “finestra notturna”, opere di Tommaso Carozzi. Le stanze assurgono così a luogo dell’esperienza “estetica” dove il territorio incontra la sua rappresentazione, inquadrata nei diversi tableaux e facendosi, così, paesaggio. Ma il gioco di riflessi in questa “camera degli specchi” si fa complesso ed ambiguo, allorché tele e cornici (dipinti e vedute) si dissociano, moltiplicando i livelli cognitivi e trascinandoci in una dimensione incerta, dove il confine tra realtà ed immagine si fa sfocato.
Anche il soffitto concorre al continuo “spaesamento” spaziale e sensoriale dell’ospite, o del visitatore. Grazie all’uso pittorico del colore, che assume connotazioni chiaroscurali nelle diverse tonalità del rosa-magenta, le dimensioni bidimensionale e tridimensionale sfumano l’una nell’altra. Le falde del tetto sono piani di un cristallo sfaccettato che assume, portandoli all’astrazione, i colori del tramonto. Le geometrie si deformano nel punto in cui giungono a contatto con il parapetto della scala, realizzato attraverso lo sviluppo verticale a tutta altezza di pannelli in tessuto retroilluminati, come una stalattite.
Lo specchio del bagno e la boiserie del soggiorno sono piani che si inclinano rispetto alla parete, trasfigurandone la natura. I primi reintroducono il paesaggio nell’immagine riflessa, i secondi evocano la forza del complesso monumentale della pieve romanica. Attraverso le dimensioni inconsuete del tavolo, il design degli imbottiti, della boiserie e grazie ad altri dettagli che interagiscono con oggetti artistici selezionati dagli autori, l’allestimento del soggiorno assume la configurazione di uno spazio espositivo, trasportandoci nuovamente da una dimensione “domestica” a una dimensione “estetica”. Un wall drawning di Sebastiano Zanetti completa l’operazione smaterializzando la parete che, grazie alla sequenza dinamica delle aperture, affaccia sulla scena monumentale della pieve.
È stato conservato il pavimento in legno di rovere del soggiorno e delle camere e quello in pietra della scala e del ballatoio. L’MDF è il materiale usato per l’arredo: naturale con vernice trasparente, leggermente mordenzato, verniciato di bianco e nobilitato con laminato nanotech super opaco, satinato o lucido. I bagni sono in resina.
L’ultima tappa in questo sofisticato dispositivo circolare di “riflessioni” ci riporta all’inizio, alla porta d’ingresso, dove eravamo stati accolti dall’insegna, opera in cotto dello scultore Nicola Biondani. I suoi “teatrini di interni” sono una rappresentazione enigmatica dell’intérieur, velata di una nota esistenziale struggente e malinconica.
Non possiamo – in conclusione – eludere un aspetto metodologico che emerge con esiti convincenti tra le righe di questo lavoro e che consiste nella stretta collaborazione, nella relazione sostanziale o meglio ancora nell’incontro tra architetto ed artista.
Evocando la nozione di “arti applicate” che connotava l’esperienza del Werkbund, poi confluita nel Bauhaus di Walter Gropius, l’aspirazione all’«opera d’arte totale» (Gesamtkunstwerk) porta l’architetto a fare un passo indietro, rinunciando al controllo assoluto, esclusivo dell’opera e del suo carattere. Per fare spazio agli strumenti e al linguaggio all’artista. Che viene spinto, a sua volta, a rinunciare ad una parte della propria autonomia espressiva per costruire un’opera site specific, ponendo il proprio “mestiere” al servizio non tanto dell’architetto, quanto dell’architettura e della sua naturale vocazione ad ospitare. •
Testo: Roberto Carollo
Foto: Filippo Belletti