Le Malaparte Impossibili
La casa di Curzio Malaparte a Capri è il centro di un fitto racconto illustrato, un pretesto per generare mille altre architetture.
E’ passato tanto tempo ormai.
Il tempo però ha il pregio di consolidare passioni e ossessioni rendendole sempre vive.
Trascorro da quando sono nato le mie vacanze a Capri e, da piccolo, mio padre, anche lui architetto, lasciandomi osservare una casa rossa dalla sagoma singolare tra la Grotta Bianca e i Faraglioni, mi disse: vedi quella è la residenza di un famoso scrittore.
Quando decisi di studiare architettura imparai che era una delle più famose dimore del Novecento. Mi colpiva il fatto che nessuno dei critici, degli storici e dei famosi architetti che l’avevano studiata, l’avesse rimessa realmente in gioco. Tutti la guardavano e l’analizzavano ammirati come se fosse un alieno di alabastro. Insomma, un totem, un’icona congelata nella sua stessa aura leggendaria e imprendibile.
Quando Andrea Palladio aveva costruito e disegnato nel suo trattato Villa Capra, la Rotonda, ne aveva fatto un’icona meticcia. Inigo Jones, Thomas Jefferson e tanti altri, in seguito l’hanno ammirata e studiata, ma soprattutto riproposta, citata, alterata, portata in giro per il mondo decretandone la lunga vita nell’immaginario collettivo.
Casa Malaparte era stata più sfortunata. Altrettanto bella e famosa come la dimora palladiana, la Villa Savoye di Le Corbusier o la Falling water di Frank Lloyd Wright, non aveva avuto lo stesso destino. Tutti l’avevano rispettata fin troppo, impedendole di generare nella realtà o nell’immaginario quello sterminato universo di variazioni multiple che si addicevano al suo carisma insondabile.
Evidentemente quest’opera era una magnifica trappola.
Racchiudeva troppi significati perché una ragione prevalesse sull’altra. Si sentiva l’eco del fascismo, della guerra, del potere, quello del comunismo, della libertà e, soprattutto, l’essenza di un uomo straordinario che ne aveva fatto un mito di pietra.
Nei miei trentennali studi sull’architettura mediterranea ne ho parlato tante volte, commettendo lo stesso errore che molti prima di me avevano fatto. Ho cercato senza esito positivo la radice architettonica, il senso della composizione partendo dalla sua osservazione, dallo studio dei suoi disegni, dalle visite all’interno e all’esterno incrociando ogni cosa con i film che, da Jean-Luc Godard a Liliana Cavani, l’avevano celebrata senza avere il coraggio di trattarla come un meraviglioso seme di tante germinazioni immaginarie.
Dopo aver accettato un invito alla Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia del 2014, dove mi fu chiesto di provare ad alterarla, compresi che questa era l’unica strada da percorrere affinché la rossa sfinge caprese potesse di nuovo sgranchirsi i muscoli.
Composti i primi disegni, ne sono venuti fuori molti altri.
Sentivo, però, che questo non bastava.
Bisognava spingere a fondo e provare a fare un libro.
Proponendo non più l’ennesima ricostruzione della vicenda storiografica relativa a questo misterioso bunker ma piuttosto un trattato polifonico che non avesse solo la realtà dentro di sé ma soprattutto la manipolazione come autentica origine di ogni architettura.
Inizio allora a raccontare cosa potrebbe essere successo a Capri prima della fondazione dell’edificio, tracciando i ritratti dei componenti di un immaginario comitato di ideazione e costruzione, tutti piegati al volere, alla fantasia e ai sogni del grande scrittore toscano. Ci sono il coutourier Paul Poiret con il suo battello gradonato sulla Senna che mi piace pensare attraversato da un giovane Malaparte con un calice di champagne tra le mani, ecco i pittori Orfeo Tamburi, Enrico Prampolini, il caprese Raffaelle Castello, il sofisticato surrealismo di Alberto Savinio. Poi gli architetti come Georges Kontoleon, Adalberto Libera, Luigi Moretti, Uberto Bonetti e il proverbiale capomastro caprese Adolfo Amitrano. Chissà se è andata veramente così: comunque è bello pensarlo.
Alla morte dello scrittore la casa si consuma in un iniziale abbandono e viene poi riscoperta con un certo timore reverenziale.
Dopo i miei collage veneziani, incomincio un’ossessiva ricerca di altri architetti che avevano provato a interpretarla vincendo ogni riserbo, per costruire nel mondo altri frammenti a lei ispirati. Così ho trovato immagini di James Wines, di Steven Holl e Franco Purini, macchine effimere realizzate da John Hejduk e anche la mia prima architettura costruita, su uno spalto della costa amalfitana, come messa in forma di un pensiero ricorrente. La casa rossa non era rimasta ferma, però era ben poca cosa rispetto a Palladio e alla invasione universale del suo stile.
Visto che ad avventurarci su quel territorio specifico non eravamo stati in tanti, ecco partita la mia chiamata alle armi.
Ho invitato amici e autori internazionali a modificare e interpretare Casa Malaparte. E’ così che da Bernard Khoury a Giancarlo Mazzanti, da Stefano Boeri a Luca Molinari, da An Tumertekin ad Alberto Ferlenga, prende forma una collezione di immagini alterate, che ho montato in sequenza con le mie, per diffondere nel mondo i tratti del nuovo stile mediterraneo/malapartico.
Ma non mi bastava, erano ancora soltanto disegni.
Tra Roma e Napoli- nelle Università dove insegno- decido dunque di guidare i mei allievi a fare dei progetti surrealisti sulla casa senza alcuna inibizione. E, finalmente, nascono inedite propaggini, generosi ampliamenti, sabotaggi e trafori che si librano sul paesaggio caprese.
Alla fine, esausto, immagino che questo rito purificatorio, questo autodafé delle Malaparte impossibili, si concluda con un’esplosione, come quella del “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni.
Inatteso, arriva un presente libero e denso di memoria: la nuova Casa Malaparte è un ostello per punkabbestia, i veri ricchi che non hanno nulla da dimostrare.
Si libera dai sali di sodio e dal vino di palma.
E’ abitata dai maleodoranti lerci del millennio che scandalizzano i villeggianti con i vestiti di lino candido e gli aperitivi al tramonto. Ci dice finalmente che la verità non esiste e che solo l’immaginario aggiunge la vita senza necessità di arredi o di posate d’argento.