Plesso Scolastico Francesco Calzolari
Il progetto nasce dalla necessità di rispondere ad una esplicita richiesta per un edificio innovativo, destinato a durare e adeguato negli aspetti didattico ed energetico; pronto ad essere potenzialmente dimenticato per le prossime decine di anni. Infatti se da un lato la volontà politica di richiedere edifici particolarmente performanti dal punto di vista tecnico si scontra con l’incapacità quotidiana delle amministrazioni nel gestirli e mantenerli, dall’altro in me perdura l’idea di un’Architettura destinata a durare, fatta di pochi e semplici elementi, chiaramente e orgogliosamente fuori moda forse, ma a cui il tempo probabilmente darà ragione. L’edificio, l’Architettura, non dovrebbe essere un peso per la collettività ma la soluzione. “Le pietre dovranno lisciarsi al passaggio delle persone”, il tempo e le generazioni di studenti dovranno fare la propria parte nel far divenire l’architettura non vecchia e obsoleta, ma antica e disponibile a qualsiasi ulteriore o diverso uso secondo il costume, noto, dei buoni progetti.
Composizione
Un blocco unitario di calcestruzzo, scavato e svuotato, è l’oggetto principale della composizione. I lembi, risultato delle operazioni di intaglio ed estrazione, si piegano e si intersecano in sezione per permettere la creazione di luoghi inattesi secondo un susseguirsi di spazi e percorsi interconnessi e destinati allo stare, vedere, imparare. Il risultato è un grande carapace che accoglie sotto di sé i volumi funzionali, ma soprattutto i vuoti che vengono a crearsi tra essi.
In alzato gli elementi si ricompongono secondo un equilibrio all’apparenza casuale, per trovare l’appoggio necessario con la creazione di setti necessari dal punto di vista strutturale e distributivo.
Due torri cave si incastrano nel baricentro traslato dell’impianto fungendo da camini per la ventilazione naturale e segnando la presenza dell’accesso principale. Corpi indipendenti posti tra gli elementi principali individuano le aule e le funzioni accessorie della didattica. Questi, realizzati in materiali leggeri e a secco, riassumono la volontà di indugiare in nuove esperienze costruttive nel tentativo di mantenere saldo una specie di laico zeitgeist tecnico. Per quanto mi riguarda questo spirito del tempo nulla ha a che fare con lo stato di “contrabbando intellettuale” odierno in cui la tecnologia è divenuta arbitro e l’architetto estasiato e acritico catalogatore di dettagli preconfezionati, tutt’altro. La ricerca sui materiali e i sistemi costruttivi costituisce un asse evolutivo imprescindibile, ma il loro utilizzo deve essere uno strumento, non il fine.
In definitiva l’impianto generale si articola attraverso incisione, parcellizzazione e de-assemblaggio di un blocco originario di 84x84 metri di lato e dello spessore di 4,5 metri. Dimensioni dettate dal terreno a disposizione, dal piano funzionale e dalla necessità di mantenere l’edificio al di sotto dell’altezza media del contesto costruito.
Lo scostamento dei blocchi interni e delle pareti, oltre ad essere propedeutico a garantire un continuo apporto della luce naturale, indugia nel campo del linguaggio prospettico suggerendo continue variazioni percettive di scala e di vista degli elementi costitutivi.
Lo stesso accesso principale, segnato dal suo insinuarsi tra le due torri, memorie di antiche Porte veronesi, declina nel rapporto con l’edificio religioso (la chiesa parrocchiale) uno scambio doppio che avviene attraverso lo sfasamento dei bracci che ne inquadrano il percorso di avvicinamento o allontanamento. Qui è utilizzato l’errore dell’occhio umano come strumento quasi barocco di dialogo tra uomo ed Architettura: entrando la divergenza dei corpi non paralleli diminuirà il volume delle facciate mute delle torri allontanandole, uscendo al contrario l’edificio religioso sembrerà molto più vicino rispetto a quel che è veramente. Come accennato il vincolo iniziale di proporre un nuovo dittongo architettonico nel contesto urbano individua nella scuola quel ruolo degli edifici civili ormai dimenticato o desueto.
L’edificio religioso e l’edifico civico hanno rappresentato i perni attorno ai quali i nostri contesti urbani si sono storicamente sviluppati. L’assenza in Rivoli di un vero edificio civile ha indotto quindi la necessità di ristabilire questo paradigma urbano che trova il suo concreto essere nel continuo rapporto di vista tra i due ambiti architettonici; rapporto di contrasto e di relazione. Così se alla quota del terreno la relazione è mediata dallo strumento prospettico, al piano copertura, il piano della piazza sopraelevata, attraverso l’inatteso panottico, denuncia tutti i drammi del recente passato. Più in alto, in cima alle torri la relazione diviene meditativa e misurata dagli inquadramenti visuali concessi dalle brecce orizzontali nelle murature nel loro continuo veri care la sintonia tra urbanità e natura. Proprio le torri sono forse l’oggetto enigmatico dell’intero apparato. Inaspettata la loro presenza, incomprensibile la loro funzione. Solo chi avrà la curiosa volontà di entrare e salire al loro interno potrà scoprirne il doppio significato. Innanzitutto il volume all’esterno massivo, all’interno si svela inesistente data la totale cavità. Verticalità, cecità e vuoto richiamano memorie di antiche architetture medievali, così come la scala in acciaio che, separata a s orare la superficie del calcestruzzo, collega i piani. Come nella Torre dei Guinigi di Lucca, il collegamento non è solo fisico ma anche empatico, ritmico: calcestruzzo al posto della pietra e del mattone, acciaio al posto del legno. Forza e fissità del primo si confrontano con leggerezza e instabilità del secondo. Sul calcestruzzo sottili linee orizzontali fungono da marcapiano ove non sarebbe altrimenti percepibile il passaggio da un piano all’altro. Esili pro li in acciaio compongono un’ossatura su cui appoggia in orizzontale un grigliato che permette il passaggio di luce e aria, ma soprattutto rende inquieto il camminarci sopra.
Il piano superiore delle torri è un attico formato da due stanze connesse da una passerella, stanze senza tetto come argutamente ha osservato una bambina, un congegno architettonico per vedere, stare, conoscere.
Gli intagli orizzontali nelle murature, riedizione delle cannoniere del vicino Forte Wohlgemuth, poste ad un’altezza di 1.40 m dal piano sono pensati per interagire con la crescita dei bambini stessi. Ogni anno i bambini potranno così apprezzare l’esperienza visiva da quelle fessure verificando allo stesso tempo
la loro crescita in altezza. Queste aperture all’apparenza casuali sono al contrario poste in precisa relazione con il contesto circostante con la schietta volontà di inquadrarne punti sostanziali. La chiesa parrocchiale, i quattro forti austriaci, l’anfiteatro morenico e il Monte Baldo ne sono i fondali, mai uguali, incorniciati e lì racchiusi. Infondo tutto ciò, ancora una volta, non è altro che il tentativo di sovrapporre a una necessità tecnica, l’evacuazione naturale dell’aria dalle torri, un altrettanto indispensabile volontà poetica.
Tecnica
“Il mio concetto di Architettura, è nell’unione e nella collaborazione delle arti, in modo che ogni cosa sia subordinata alle altre e con esse in armonia [...]. È una concezione ampia perché abbraccia l’intero ambiente della vita umana; non possiamo sottrarci all’Architettura, finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto.”
Non ho trovato un pensiero più completo di quello di William Morris in grado di raccogliere esattamente la mia visione delle cose e riassumere il tentativo messo in opera in questo progetto di mettere appunto in equilibrio ogni arte.
L’edificio si sviluppa su un unico livello, rispettando i criteri e i parametri legislativi della didattica e quelli della cosiddetta sostenibilità, sviluppando condizioni qualitative superiori attraverso l’applicazione di tecniche costruttive, materiali e tecnologie impiantistiche il più possibile integrati.
Le tre scuole, pur facendo parte dello stesso corpo edilizio, sono pensate per dotarsi di modelli organizzativi, distributivi e di gestione autonomi ed indipendenti.
Dal punto di vista energetico gli elementi presi in considerazione hanno riguardato innanzitutto l’esposizione, le caratteristiche della radiazione solare e il comportamento termico dei materiali utilizzabili.
L’edificio, il cui involucro è doppio, utilizza il moto convettivo dell’aria interna attraverso l’uso di sistemi automatici, sensibili alle condizioni ambientali, per il controllo di chiusura e apertura dei varchi di ventilazione così da mantenere e massimizzare il comfort ed equilibrare al massimo i consumi senza necessità di energia. Le torri sono camini di ventilazione naturale al pari delle Torri del Vento di antica tradizione mediorientale, Badghir in lingua farsi. In copertura l’utilizzo del fotovoltaico, nascosto alla vista nell’incavo dato dallo spessore della trave di bordo, garantisce un’ottima autonomia elettrica.
Gli spazi esterni destinati ai bambini sono organizzati ed attrezzati come ambienti educativi, consentendo l’esplorazione libera, il gioco strutturato, motorio e simbolico sempre in continuità con gli spazi esterni. Le stesse aule nelle quali la parete rivolta verso il giardino è sostituita interamente da una facciata in vetro ne amplifica lo spazio interno verso l’esterno in un continuum variabile solo al cambio delle stagioni.
I grandi spazi coperti, più che corridoi richiamano altri luoghi dedicati alla socialità. Il corridoio distributivo della scuola elementare, illuminato dall’alto, è sovradimensionato proprio per proporsi come stanza ulteriore durante le ore ricreative. L’altro spazio distributivo, quello della scuola d’infanzia, è un playground dedicato al gioco e alle attività comunitarie che si manifesta in realtà come un portico aperto sull’esterno, ritmato da colonne, una sorta di stoà contemporanea.
I materiali sia all’esterno che all’interno sono denunciati nella loro natura senza alcun compromesso. L’acciaio, il calcestruzzo, i tamponamenti e gli elementi che costituiscono il sistema degli impianti, vivono la propria autonomia formale in un persistente rapporto relazionale di indissolubile necessità. L’immagine complessiva volutamente ascrivibile all’ambito industriale costituisce la manifestazione di quanto in realtà l’edifico è nella propria natura. In equilibrio costante tra il dionisiaco compositivo e apollineo tecnico si assume l’onere di educare alla contemporaneità chi, nei nostri contesti culturali, non ha modo di parteciparvi perché immerso all’ombra di una società immune al passare del tempo e al mutare delle immagini di cui il nostro ambiente è costituito.
Dal punto di vista puramente intellettuale l’edificio racchiude in sé due interrogativi che ne permeano l’immagine e la sostanza. Il primo propone, in chiave di ricerca, la soluzione di un’architettura a-prospettica secondo la convinzione che sia necessario, come già fatto da alcuni maestri del passato, distaccare ogni valutazione di merito riguardo la necessità di porre l’immagine della forma, manifestazione di un tipo o di un linguaggio, come chiave del progetto di Architettura. L’edificio vuole allontanarsi da questo dichiarando, al contrario, la necessità di proporre innanzitutto buone piante e valide sezioni. Questo secondo la convinzione che i progetti dovrebbero svolgere la propria funzione educativa e celebrativa ben oltre le iscrizioni poste al loro esterno. Una scuola è una scuola, un municipio un municipio, una fabbrica una fabbrica e questo dovrebbe essere sempre percepibile.
Un ricercato eccesso massimalista nel perseguire l’obiettivo ha portato a confrontarmi inevitabilmente con alcuni autori da Terragni, Polesello, Lucio Costa, Villanova Artigas, de la Sota, Cabrero, Mendes da Rocha, a Carrilho, per citarne solo alcuni. In realtà il risultato formale non è frutto di una ricerca filologica a priori ma della necessità di indugiare soprattutto nel campo della spoliazione, dell’assenza e del vuoto come lessico. Così ciò che è per davvero, cioè materiali, impianti, accessori, serramenti, viene mostrato nella realtà per ciò che è nella propria essenza, a volte crudele, senza alcun compromesso. Sono convinto della necessità di spoliazione e nella riduzione in minimi termini del rapporto tra tecnica e composizione e ancor più nella sua manifestazione no al limite, rischioso ma voluto, del far apparire l’edificio già quasi come una rovina, rovina di se stesso, pronto ad essere ciò che potrà essere, prefigurazione oggi del proprio futuro prossimo. “Più con meno” scrive e dice spesso Alberto Campo Baeza, anche se la lusinga di riuscire in questo intento porta a volte alla manifestazione di opere raffinate, edulcorate, elegantissime e altrettanto fotogeniche, al limite del narcisismo. Può capitare, d’altro canto, che la ricerca dell’assenza di forma risulti essere essa stessa un formalismo. Rimane valido, validissimo questo punto di vista, ma è altrettanto valido il termine nella condizione di economia del gesto, della sua rarefazione, della sua quasi scomparsa. Ciò che è utile, solo ciò che è davvero utile nella composizione e nella tecnica sarà parte dell’alfabeto utilizzato.
Il secondo enigma riguarda l’uso convinto e provocatorio di un atteggiamento interlocutorio nei confronti della cosiddetta edilizia sostenibile, non del concetto di sostenibilità in sé. Questa nouvelle vague oltre a ordinare l’Architettura in base non più alle qualità compositive tende a stabilirne parametri classificatori a-critici. Una virulenta ed il più delle volte mercantile irruzione della tecnologia (NB: non tecnica) all’interno dei campi del comporre produce edifici che del materiale di costruzione e dell’impiantistica a corredo fanno l’esclusivo senso del proprio essere.
“Gli strumenti di cui l’uomo dispone hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale.”5 La domanda che spesso mi pongo è cosa rimarrà quindi di questi edifici, prodotto di un mercato tecnologico talmente preponderante da annullare qualsiasi contributo umanistico? Dato che invece credo siano altre le basi caratteriali dell’Architettura in questo progetto ho tentato, n dall’inizio e a discapito di molti, di indagare soluzioni che, meglio delle più à la page, possano procrastinare tutto ciò che l’Architettura ci ha tramandato. Ogni opera di dovrebbe ambire a divenire monumento urbano del proprio tempo, non per soddisfare l’eros di qualcuno ma solo ed esclusivamente per garantire progresso nel presente e memoria nel futuro.
Non è un caso che in francese, lingua spesso più attenta alle traslazioni anglo le rispetto alla nostra, il concetto di sostenibilità sia espresso con il termine durabilité, parola che in sé racchiude il fondamentale rapporto con il tempo. Sostanzialmente diverso quindi parlare di architecture durable o di architettura sostenibile e proprio in questo non secondario dettaglio sta la questione: cosa si sta davvero costruendo con materiali a noi pressoché sconosciuti? Siamo certi che seguendo acriticamente questa sorta religione d’importazione, che può aver senso in altri contesti geografici, sociali, economici e climatici, stiamo procedendo lungo la giusta via? Non stiamo forse venendo meno, troppo spesso, alla triade vitruviana? Oppure dovremmo convergere nell’idea che questa non abbia più senso?
Sparta era costruita per lo più in legno e pur avendo sconfitto Atene di essa, oggi, non rimane quasi nulla. Di Atene invece, costruita in pietra e marmo rimane se non altro l’idea di civiltà, fatta anche di Architettura, origine del nostro mondo occidentale.
“Il calcestruzzo è la pietra ricavata artificialmente da un miscuglio di cemento, sabbia ghiaiosa e acqua”. Mi affascina questa frase di Severino e l’uso del calcestruzzo al posto di altri materiali, sicuramente più graditi alle amministrazioni, è stata una convinta scelta non solo di relazione con alcuni maestri a me cari ma una proposta per tentare di persuadere i più dell’attualità di questa magnifica sostanza. Calcestruzzo, acciaio e vetro, i materiali di cui è costituito questo edifico, sono prodotti di sintesi che derivano dall’ambiente che ci circonda, riciclabili e, proprio grazie al loro riciclo, disponibili in buona misura. Per produrli non vengono tagliate foreste, troppo spesso falsamente definite controllate, ma al massimo scavati alvei di umi che di lì a poco saranno nuovamente e naturalmente riempiti. Le opere costruite con questi materiali, prodotto della tecnica prima che della tecnologia, ci guardano dal passato remoto e recente dimostrando la loro pressoché immortale forza, tanto da non farci vedere nulla, ad oggi realizzato in altro modo, di altrettanto valido.