Di ogni ordine e grado
La scuola è immaginata come con una piccola città nella città, con le sue strade, le piazze, gli slarghi, con le sue case, le sue stanze piccole e grandi, fisse e mutevoli, i suoi giardini privati e pubblici, i suoi spazi collettivi, rituali, intimi e privati.
La scuola è immaginata integrata con la vita della comunità che l’accoglie; nelle sue forme recepisce il contenuto funzionale del rapporto tra concezione del modello educativo e vita sociale, esprimendo la capacità di essere centro della vita culturale del quartiere.
Semplicità, flessibilità e rigore: una riflessione progettuale sul tema della scuola primaria
L’architettura è, come ci ricorda Antonio Monestiroli, promessa di felicità.
Un’affermazione così semplice e carica di bellezza, e nello stesso tempo inafferrabile e sfuggente, tanto da spingerci ad alcune brevi riflessioni.
Quella testimonianza si illumina di verità (sebbene da me intuita più sul piano astratto che sulla base dell’esperienza diretta) quando viene associata al tema dell’architettura per la scuola: una presenza nella vita delle comunità la cui natura, la cui anima è rappresentata dal descrivere l’aspirazione dell’uomo all’incontro, al raduno, per apprendere ed esprimere la propria identità, nella consapevolezza, nel benessere e nella libertà.
E questa condizione si riconosce in un organismo (nell’architettura della scuola per l’appunto) in grado di esprimere armonia e bellezza, valori rivelati nelle forme dell’equilibrio, della corrispondenza, della sobrietà e della coerenza, come ci suggerisce L. B. Alberti (...che gli edifici risultino adeguati alle loro funzioni, abbiano la massima solidità e durata, e siano eleganti e piacevoli nella forma…): una condizione di rigore tecnico ed estetico percepita dagli occhi e dalla mente, che precede ed inaugura lo stato di conoscenza ed il sapere.
Qual è la natura di questo spazio immaginato per dar forma a questa aspirazione?
L’organismo architettonico deve essere riconosciuto come una forma capace di ricevere ed essere al contempo portatore di un’aspirazione collettiva, di un destino condiviso. Avere la capacità di raccordarsi con un passato, l’unico ed insindacabile testimone del processo di lunga durata che lega l’uomo alle forme dell’istituzione. Essere portatore di contenuti che scaturiscono da un flusso storico, tanto da ribadire, senza sobbalzi, il valore della continuità e delle persistenze, sempre nella dimensione per nulla statica e volta all’innovazione.
Possedere un’identità pubblica, quindi, accogliendo nelle forme e negli spazi, l’immateriale e volatile consistenza del pensiero comune.
Ed è su questa considerazione che l’architettura della scuola rifiuta l’eccentricità e l’individualismo, l’accento personalistico, costruendo la sua identità, la sua espressività narrativa, su ciò che è custodito. Un’architettura così ispirata reclama un linguaggio semplice, razionale, chiaro ed intellegibile, fondato e comunicativo, un’offerta per la mente.
L’architettura della scuola promette durata e non accetta forme provvisorie ed effimere: riceve dal tempo, gravido di senso, la sua identità, promettendo resistenza e longevità.
Questa considerazione non può che essere interpretata come diretta conseguenza della prima: è pubblica perché durevole e durevole proprio perché di tutti. Infatti durata e resistenza identificano l’architettura dell’istituzione e nel contempo descrivono il desiderio dell’uomo di riconoscerla come testimone del tempo passato.
Ma che cosa vogliamo intendere definendo questa architettura chiara ed intellegibile, razionale e resistente?
Intendiamo con questo proposito elevare la semplicità, la chiarezza e la sobrietà a paradigmi, a modelli sul quale identificare la natura tipologica e il carattere della scuola.
Per comprendere questi valori, è necessario, a nostro avviso, ridiscendere la scala del tempo, intercettando quel momento primo in cui le aspirazioni e le ragioni dell’uomo presero una forma: è questa una ricerca verso l’individuazione di una sostanza prima, essenziale, archetipica: un’idea di forma, tanto astratta quanto determinante e concreta, in cui si rivela la convergenza tra il cosa e il come, tra forma, uso e costruzione: una corrispondenza che descrive inequivocabilmente le ragioni razionali e liriche sulle quali avviare il processo creativo.
Così come L. Kahn, inseguendo la natura e il carattere della sala d’arte drammatica di Fort Wayne, scopre nell’analogia con la cassa armonica la vera ragione ed identità dell’edificio (il riprodurre il suono nel silenzio, nel buio di una grande stanza orientata verso una scena sonora), a nostro avviso, la natura dello spazio dell’apprendimento della scuola primaria, trova nella dimensione riservata del luogo protetto, circoscritto, la sua sostanza tipologica e il suo contenuto espressivo e tipologico: un recinto, una copertura ed un prato.
Un’internità connessa ed attraversata dagli itinerari del quartiere, dove, alternando spazialità domestiche (rassicuranti e quotidiane) con le apparizioni dell’inconsueto e del nuovo, vive una comunità di stanze dialoganti.
Modello ideale o tipo
La nostra proposta progettuale è caratterizzata da una soluzione architettonica che, in assenza di un programma reale, rischia di mostrarsi come un esercizio accademico e puramente teorico: una forma che indaga nell’indeterminatezza dell’atopia.
Due diversi percorsi si aprono di fronte a noi: da una lato la possibilità di rimanere nella dimensione vaga ed astratta del tipo, schema logico di riferimento (struttura ordinatrice della concezione spaziale e tettonica), che per sua natura e non può che definirsi come programma di forma e non come forma. Dall’altro, quella di sperimentare il progetto alludendo ad un modello ideale, capace di adattarsi a tutti i possibili siti, tanto astratto quanto compiuto, con una propria identità architettonica: un ideale di “perfezione” estetica, costruttiva e d’efficienza funzionale.
Un’ esperienza progettuale avviata a ragionare sulla forma ideale, sulla forma astratta, rifugge da soluzioni architettoniche che ostentano complessità e virtuosismi.
La deroga dalla semplicità, dalla linearità, diviene forma ammissibile solo in presenza di un luogo, di una orografia, di un programma, e di un contesto culturale.
Per queste ragioni la nostra proposta, non può che rimanere cristallizzata in una soluzione schematica, in uno stato oscillante tra l’essenzialità scheletrica della concezione tipologica (dal carattere programmatico) e il progetto d’architettura.
Tra queste due vie non c’è opposizione però: l’una si specchia nell’latra. Il ragionare sul tipo, sullo schema, avvia il processo creativo in cui la tettonica, la costruzione e l’organizzazione dello spazio incontrano la natura della forma intellegibile.
La descrizione di questo processo è data dall’assumere alcune regole compositive.
Innanzi tutto, l’affermazione e la riconoscibilità di un impianto tipologico: un recinto, che circoscrive un tessuto edilizio (ritmato dall’alternanza di padiglioni e corti) e un prato, un orto concluso. Da qui emerge la necessità d’identificare e rendere esplicite le relazioni tra tettonica e forma dell’architettura: cioè di rappresentare e descrivere l’architettura come l’arte delle connessione tra elementi e parti diverse.
Prendono importanza tre principali elementi definenti l’assetto complessivo dell’edificio: il basamento, per l’adattamento al suolo; l’elevazione di muri e piloni, per il sostegno e, infine, l’orizzontamento, la lastra nervata a grande luce di copertura.
Su questa base, si integra la ricerca del carattere architettonico e delle qualità spaziali e costruttive. Prevalgono relazioni di tipo oppositivo, nette differenze, che non ammettono intromissioni e mediazioni: al chiuso ribatte l’aperto, al basso l’alto, al massivo il leggero, al trasparente l’opaco, ecc. Ma su tutte queste prevale il rapporto oppositivo tra stabile e flessibile, tra mutabile ed immutabile, tra determinato ed indeterminato; tra attività aggregabili ed attività fisse, tra tettonica del muro e tettonica del trilite, tra il chiuso e l’aperto.
Ad un impianto introverso e murario, chiaramente definito si contrappone, una concezione della configurazione degli spazi interni in qualche modo indeterminata, concepita per soddisfare il principio di duttilità e flessibilità funzionale, assecondando così i diversi percorsi dell’apprendere. L’aula ordinaria, che sottolinea lo spazio privilegiato delle attività formative, si modella assumendo molteplici assetti distributivi.
Un programma flessibile deve trovare la sua sostanza nella concezione strutturale, nella materia e nella tecnologia.
Se la muratura ed il conglomerato cementizio conferiscono forma resistente e stabilità all’involucro nel suo diretto confronto con il suolo, così, per inverso, quando la struttura s’innalza facendosi man mano coronamento e copertura, la tecnologia del legno, con la sua leggerezza e snellezza, assicura fluidità e continuità tra gli spazi, trasparenze tra interno ed esterno, generando e diffondendo luce diffusa e vedute.
Su questa struttura apparentemente indeterminata, pesa un sistema di proporzionamento modulare pensato per dare regola ed ordine alla mutevolezza.
Il grande ed il piccolo, l’aula ordinaria e l’aula aggregata trovano le loro identità, misura e sostanza materica attraverso un diaframma mobile: un sistema di pannelli lignei e tessili, scorrevoli, traslabili dal basso all’alto, assecondando le logiche dell’ordito strutturale, fissano, temporalmente le corrispondenze e le dimensioni, filtrando luce naturale.
C’è una luce naturale indotta a percorrere determinate vie d’illuminamento: una luce qualificata e modificata, guidata dall’architettura; e ce n’è un’altra libera, indeterminata, inconsapevole, che disegna splendori, lucentezze, riverberi ed ombre inseguendo le sue geometrie. E poi c’è un vedere, un inquadrare il paesaggio, partecipando della scena dell’intorno.
Non tutti gli spazi della scuola richiedono la stessa qualità di luce naturale, le stesse vedute: l’aula ordinaria vuole una luce dall’alto, guidata, filtrata, ed omogeneamente distribuita; una luce naturale che non riveli la fonte d’origine.
Ci sono altri spazi della scuola (come il refettorio, i laboratori, la biblioteca) che richiedono un illuminamento più terreno, non sommitale ma proveniente da più lati; spazi che accettano i riverberi e le ricchissime modulazioni, in cui luce e veduta si compongono in una stessa unità di senso.
La luce informa la natura della materia: tanto più la compenetra tanto più la materia si fa materia luminosa, diffondendo, soffusamente, nello spazio quei caratteri. I corpi si fanno più leggeri, eterei, esili. E’ questa la descrizione della nostra scuola quando si fa lanterna.
Tanto più la materia resiste e si oppone alla luce tanto più diminuisce la capacità di diffusione della luce. I corpi si fanno opachi, densi, oscuri, compatti. Così lo spazio tutto intorno cerca nel contrappunto dell’apertura, della finestra, la sua via alla vita.