Micro-Trasformazioni
L’espressione micro-trasformazioni nasconde al suo interno un apparente antagonismo tra i due termini che la definiscono, quantità e qualità sono le matrici di questi termini. Se nel primo caso la corrispondenza è evidente, nel secondo conviene fare alcune premesse, utili per una maggiore chiarezza. La trasformazione come valore e “come strumento concettuale che presiede alla progettazione dell’architettura” è stata analizzata da Vittorio Gregotti nel numero doppio della rivista “Casabella” dal titolo Architettura come modificazione.. In quelle pagine si è cercato di dare risposte alle questioni riguardanti il progetto di architettura attraverso la nozione di luogo e delle possibili relazioni che ne possono scaturire, in un contesto professionale, disciplinare e culturale profondamente mutato.
A distanza di trent’anni i cambiamenti che si sono avvicendati in modo repentino, uniti alla crisi sistemica che stiamo vivendo da qualche anno, ci hanno posto di fronte ad uno stravolgimento dei nostri centri urbani, stravolgimento, non trasformazione, degno di una città invisibile nel senso di immaginaria, fatta di parcheggi al posto di viali e giardini, segnata da serrande abbassate che celano automobili piuttosto che da aperture desiderose di mostrare mani sapienti, scandita da porte blindate e bancomat anziché da banconi consumati di cappellai e laboratori artigianali.
È un problema di abbandono, non esclusivamente fisico, come quello che ha interessato le nostre campagne, ma anche emotivo, che ci pone in uno stato di non- appartenenza, siamo qui ma siamo altrove, non siamo più in grado di avvertire la città come dilatazione del nostro corpo, ci è difficile anche solo pensare che la città possa essere “il nostro corpo nello spazio”, per dirla con le parole di Ferdinando Scianna..
Tutti risvolti che non riguardano la forma della città, di per sé compiuta a meno di stravolgimenti drammatici, ma lo sforzo per intenderla e viverla come polis, un’articolazione di realtà sociali e culturali che condividono in modo attivo lo stesso spazio. C’è da chiedersi come possa oggi la città storica riaffermare il proprio valore di luogo sociale, la propria legittima centralità, uscire da un impasse che la relega a pura facciata, nel- la migliore delle ipotesi musealizzata, svuotata dal proliferare di “altri centri” simboli del consumo superfluo, piuttosto che essere valorizzata in quanto depositaria di una cultura materiale e immateriale, comunque commercializzabile, ma di altro spessore. I tentativi di portare nei tessuti consolidati il modello grande magazzino è fallito, non sono i posti auto o le gallerie commerciali en plein air a determinare la riuscita di una riappropriazione sempre più urgente; invece di comprende l’anima dei luoghi si è cercato in un altrove, in altri meccanismi, una parvenza di verità.
Sta di fatto che la città, intesa come organismo, è anche capace di rigenerarsi, o quanto meno tenta di contrastare le derive autolesioniste. Ne è un esempio la tendenza che è in atto da qualche anno e che misura un tipo di trasformazione con strumenti rinnovati, mettendo in gioco nuovi scenari; in questi casi il binomio qualità/quantità sembra riguardare un minimo comune denominatore che possiamo definire “fare tanto con poco”. È quello che abbiamo cercato di descrivere nei progetti esposti in mostra, un’attitudine basata sull’ottenimento del massimo risultato utilizzando il minor numero di risorse, economiche e di scala, argomento già messo in evidenza dalla critica recente.
Ciò che interessa sottolineare è la possibilità di vedere se queste pratiche hanno la forza per essere assunte a modelli capaci di risollevare la situazione attuale. Se partiamo dal presupposto che nel progetto di architettura il tanto e il poco non sono legati ad un significato quantitativo, non mi riferisco al noto “Less is More” di miesiana memoria ma al fatto che il valore di ogni buon progetto non ha né scale né dimensioni, possiamo facilmente convincerci che una buona architettura non dipende dal numero di risorse che si mettono in campo, ma dalla capacità di organizzare e rendere armonico uno spazio con gli strumenti che si hanno a disposizione.
Fare architettura infatti non riguarda esclusivamente la costruzione di edifici ad alto valore simbolico con budget pressoché illimitati, significa anche raggiungere un risultato emblematico con spazi, mezzi limitati e gesti minimi. Dal punto di vista della gestione territoriale e amministrativa basata su operazioni di minore entità può essere utile ricordare le idee che l’economista Ernst Friedrich Schumacher ha esposto nel libro Piccolo è bello. e in particolar modo nei capitoli che esaminano il tema della dimensione e dell’utilizzo consapevole delle risorse del pianeta. Se dunque non è la quantità o la dimensione a caratterizzare il valore del progetto di architettura, quali sono i paradigmi a cui riferirsi per un mutamento degli usi nei contesti storici?
Il criterio adottato in questa sezione della mostra e i conseguenti progetti selezionati, seppur in misura limitata possono contribuire a dare un’indicazione su alcune strade possibili da percorrere. La pluralità espressiva che emerge non deve trarre in inganno: a un occhio attento e scevro da pregiudizi appare chiara la volontà diffusa di perseguire quella che in tempi recenti è stata definita rigenerazione urbana, vissuta inizialmente da un punto di vista antropologico per poi comprendere anche gli ambiti economici e amministrativi.
È infatti questa necessità di relazione che la città chiede con insistenza, una relazione che considera i cittadini, con le loro azioni e i loro comportamenti, gli autentici custodi del paesaggio, sia urbano che territoriale. In questo quadro generale le architetture a scala minuta, eredità appartenente più ad un mondo rurale che urbano e forse per questo simbolo di una condizione socio-economica che si voleva scordare, dichiarano l’appartenenza dello spazio della città alle persone, esprimono, sia attraverso i processi inclusivi che li determinano, sia tramite i risultati, la loro vicinanza alla vita quotidiana, sollecitano, grazie alla sinergia con le altre discipline, riflessioni intorno alla riappropriazione e alla trasformazione di luoghi trascurati, o nella peggiore delle ipotesi dimenticati. Un desiderio, quello del riavvicina- mento tra i luoghi della città e la vita quotidiana, avvertito da Georges Perec in “Specie di spazi” quando nel capitolo intitolato “La città” scriveva: “Metodo: bisognerebbe, o rinunciare a parlare di città, o costringerci a parlarne il più semplicemente possibile, a parlarne in modo ovvio, familiare”.
È di questa semplicità, di questa familiarità che la città si dovrebbe nutrire, con mezzi e dinamiche proprie delle micro-architetture. In primo luogo la scala, la dimensione ridotta come dispositivo spaziale risulta essere adatta per un riavvicinamento delle comunità ai tessuti urbani, pare capace cioè di ripristinare quella relazione interrotta di adesione e complicità al corpo della città.
Vi è poi la cura, l’improrogabile bisogno di riportare l’architettura a strumento di servizio, per rendere la città un luogo abitabile 8. attraverso il contributo di tutti, dove non si occupano spazi, ma ci si occupa degli spazi e delle innumerevoli relazioni attuabili. In terza battuta il fattore tempo. La temporaneità di qualche esempio non deve distrarre, certo, non c’è bisogno di queste righe per tenere saldamente ancorata l’architettura ad una delle sue principali peculiarità, ciononostante è probabile che si debba accettare l’idea di una transitorietà necessaria negli scenari futuri del panorama architettonico; una precarietà che non assume un carattere inopportuno, ma che utilizza strumenti specifici per dare risposte a nuove domande.
La riflessione riferita al fattore quantitativo non è connessa unicamente alla dimensione, se osservata da punti di vista diversi può assumere significati imprevedibili, come ad esempio la possibilità di “partire dal basso” e di ritenere i comportamenti dei singoli un veicolo influente per la “modificazione” degli assetti attuali è testimoniata da alcune teorie ambientaliste, come quelle del filosofo Marcello Di Paola, nelle quali scopriamo molte analogie con le esigenze emerse nei processi di trasformazione dei tessuti sociali. Il bisogno innanzitutto di una rete, fondamento di ogni paesaggio, cioè di una capillarità di elementi posti a sistema, presupposto per concorrere ad un’integrazione tra i vari attori che lo compongono. Il ruolo che possono avere alcuni “casi di metamorfosi urbana in spazi verdi” è incoraggiante. In questa direzione la necessità di una microeconomia, non necessariamente in contrapposizione con i sistemi economici globali, appare un’alternativa realizzabile in grado di condizionare i processi a scala più ampia.
Proprio l’aspetto economico risulta essere l’elemento determinante per la riuscita dei micro-interventi e non solo per il periodo difficile che stiamo vivendo; anche la necessità di dare al progetto la “giusta misura”, sia dal punto di vista ambientale che disciplinare, è un elemento determinante. Risulta superfluo ricordare la corrispondenza tra i termini economico, poco costoso e a buon mercato, anche se nell’uso corrente se ne sono perse le tracce; eppure grazie alle agitazioni dei mercati globali, negli ultimi anni vi sono diffusi comportamenti che si prefiggono questi obiettivi.
In questi scenari assume importanza la responsabilità dell’architetto, già messa in campo nel 2003 dalle pagine de “L’Architecture d’aujourd’hui”. come ago della bilancia tra gli Stati e le leggi di mercato europee e dunque del rapporto qualità/prezzo, vero “cuore del problema”, non solo dell’abitazione sociale oggetto di indagine di quel numero della rivista francese, ma anche della soluzione dei problemi che interessano i tessuti storici.