Scatole combattive
Lunghissime curve tra vallate remote di una Italia centrale arcaica e misteriosa.
Boschi di castagni, lecci e - di colpo - fuori dalle gole, anticipata da frammenti di murazioni e torri di guardia, appare la rocca di Camerino, uno spalto di chiese e palazzi affacciato su una coltre di campi dove la città diffusa ha stentato ad arrivare.
Lo spettacolo è ancora quello raccontato da Cesare Brandi in Terre d’Italia.
Ogni volta che ci torno ho la sensazione di un susseguirsi incessante di traguardi e di emozioni visive. Dalla città verso i monti Sibillini in una lunghissima sequenza allungata sino al verde dell’Umbria.
Il Palazzo Ducale, al sommo del fortilizio, è un potente rivelatore di panorami. Dalla sua corte, come squarci improvvisi, le coltivazioni lontane formano un tappeto maculato e lo sbalzo della parete rocciosa procura le vertigini.
Nel 1997 insegnavo da due anni progettazione nella Facoltà di Architettura dell’Ateneo di Camerino e, assieme ad altri miei colleghi che si occuparono di altri temi, venni incaricato dal Rettore dell’Università di immaginare un edificio da dedicare ai servizi generali per il Campus, posto a mezza costa al di sotto della cittadella.
La potenza di quel contesto ambientale e il ricordo delle sorprese visuali che avevo avuto in molti siti acropolici dell’Italia media, da Urbino a Pienza, da Orvieto a Civita di Bagnoregio, da Spoleto a Camerino -appunto- mi suggerirono la prima scelta da adottare.
Rinunciai subito a fare un edificio paesaggio, scelta a quei tempi piuttosto in voga tra molti architetti italiani perché mutuata da una seducente tendenza post - organica che si era formata in assenza di orografia variegata nell’Europa settentrionale.
A me interessava, invece, realizzare un monumento antimimetico e, vista la posizione dominante, costruire un severo belvedere coperto.
Il sito che mi avevano assegnato era un falsopiano e allora pensai a un basamento in parte interrato che avrebbe ospitato una palestra per gli studenti del Campus. Poi disegnai una lunga cordonata per collegare il salone delle assemblee alla palestra e, ai lati, si sarebbero aperti sulla vallata i due ambienti polifunzionali che gli allievi avrebbero usato come spazi di lettura, studio e laboratori comuni.
Due corpi bassi segnati da un percorso coperto a monte e da una teoria di doppie aperture sulla valle e sulla rocca costruiscono una vero e proprio congegno per ammirare a sud la natura e a nord l’architettura.
Questi blocchi si intersecano con il salone rivestito in marmo travertino e chiuso sui due lati panoramici per rivelare la vista più bella attraverso un mirino, un’asola orizzontale che incornicia una scena da sfondo pittorico rinascimentale. Ai lati, una grande vetrata segmentata da infissi metallici racconta l’interesse mai sopito per la ricerca sui riflessi che Le Corbusier aveva posto tra La Tourette e il Carpenter Center nella seconda stagione della sua vita.
Questo lavoro - per i problemi economici che in questi anni hanno afflitto il paese - è stato realizzato solo oggi, quindici anni dopo la sua ideazione e, a meno delle ringhiere modificate dalla direzione lavori, rispecchia fedelmente il mio primo progetto.
Mi fa una certa impressione vedere come questa macchina paesaggistica per me sia ancora attuale e contenga molti spunti che hanno contrassegnato miei lavori di più tarda ideazione ma di più giovane costruzione.
Soprattutto mi piace che questa architettura decreti senza alcun compromesso una vera e propria continuità combattiva tra architettura, monumento e paesaggio.