STILL
Progetto Vaccari
Cardelli & Fontana artecontemporanea
Con Carlo Vaccari, nei primissimi anni del ‘900, la fabbrica di ceramiche esistente a Ponzano Magra dalla fine dell’800, inizia a raggiungere la ribalta nazionale e mondiale, con una rete commerciale che distribuisce le ceramiche in ogni continente. All’inizio degli anni ‘50 la Vaccari diventa la più grande fabbrica di ceramica dell’intera Europa. Un presidio industriale che dà lavoro a migliaia di persone e che trasforma una zona di campagna in un vero e proprio “villaggio industriale”. All’inizio degli anni ‘70, l’affermarsi del distretto lapideo emiliano, porta però a un forte e progressivo ridimensionamento della produzione, che si conclude nella primavera del 2006, quando la fabbrica viene chiusa.
Qualunque cosa la mente umana si trovi a dover comprendere, l’ordine ne è una indispensabile condizione (…) L’ordine consente di concentrar l’attenzione su quanto si assomiglia e quanto, invece, è dissimile: su quanto vicendevolmente si corrisponde o è, invece, segregato in sé.
Rudolf Arnheim, Entropia e Arte
Il passaggio da una vita ad un'altra degli edifici talvolta sottende pause che aprono a possibilità di godere esteticamente forme pensate principalmente per l’attività umana: mancando questa, si riapre la possibilità di rinnovare il confronto con le forme, l’estetica, il disegno di spazi senza troppo interrogarsi su “cosa si faceva”, spostando l’attenzione sul “dove”.
Ed è una sorta di stato di grazia, quello che ci accompagna entrando in luoghi “in sospensione”, nella consapevolezza che quel momento non tornerà mai, che quella possibilità di godere del silenzio di luoghi una volta pieni di rumori (i rumori del lavoro), di materiali (i materiali del lavoro), cogliendo il senso del monumentale, il pensiero dell’uomo che si è esplicato attraverso la progettazioni di spazi produttivi (di lavoro, ancora una volta), non sarà poi così cristallino, così pieno di consapevolezza di godere di un tempo di bellezza. Le fotografie che compongono questo ciclo di lavoro di Luca Lupi raccontano di un tempo e di un luogo. Il tempo è quello lungo, composto da tante ore, molteplici sedute di confronto con lo spazio, da tante prolungate soste in ascolto di azioni evaporate.
La ricerca di Luca Lupi si sviluppa, attraverso la fotografia, in un percorso costellato dal contrasto tra tempo convenzionale e tempo della memoria (o individuale). Ma il suo lavoro si snoda anche attraverso un’attenzione alle cose, alle “belle arti”, ai “beni culturali” prodotti dell’ingegno umano, per la loro vocazione alla testimonianza, al passaggio generazionale, al loro modo di poter essere documento - e espressione poetica – che riguarda il parlare degli uomini agli uomini.
È con questa duplice attenzione che il suo sguardo e la sua attenzione si posano su questi scheletri architettonici, su spazi che ricordano carcasse di balene, ventri ambigui, su luoghi sopraffatti da una natura che reclama il suo essere lì per diritto. Eppure luoghi che, ancor oggi, manifestano quell’ordine compositivo, quella tensione speciale propria delle cose pensate, progettate dall’uomo che stanno nel segno - pur nel disfacimento - del rigore, del progetto, del calcolo, della misura. Il cemento sembra pelle e, come la pelle umana, presenta pori, cicatrici, screpolature, rughe. Grandi occhi si spalancano nel cielo, l’architettura e i suoi materiali diventano espressivi, oltre che simbolici, come li si possono ritrovare, ad esempio, in quell’edificio straordinario che è la Sede del Parlamento a Dacca (Bangladesh, 1962 - 1973) progettata da Louis Kahn, sintesi di purezza e storia, minimalismo e tradizione.
Ed è con spirito quasi commosso (nel senso etimologico del termine), che lo sguardo parimenti si posa e inquadra particolari della disgregazione e del disordine: archivi sfasciati, faldoni abbandonati e illeggibili, macchinari, tubi, plastiche, metalli. Nello scarto tra ordine e disordine si compie, in questa serie di immagini, un processo di contemplazione. Di un sublime, oggi, che sta nella purezza delle linee, nella bellezza delle coperture, nella partitura degli spazi in ampie campate di sontuosi luoghi archeologici, avanzi di civiltà remote che riguardano appena la generazione precedente e la nostra. Nel silenzio di certe giornate, nel segno del vento che solleva e fa sbattere le lastre di lamiera, nel flusso di energia che sembra abbandonare i luoghi, il generale, per riscaldare gli oggetti, il particolare, in un’epifania di un disordine entropico.
Ilaria Mariotti