The Tree of Life Chapel
Nel 2012, Ugo Rosa scrisse questo bel testo che accompagnava le mie fotografie e i disegni dello studio Cerejeira Fontes Architects.
Penso sia giusto condividerlo qui.
THE TREE OF LIFE CHAPEL IN BRAGA
Ugo Rosa, Caltanissetta, Giugno 2012
So dove si trova il Portogallo.
Si affaccia su quel mare imperscrutabile che mette fine all’Europa e guarda verso le rive di un continente ipotetico. Ma nonostante sappia dove si trova, il Portogallo, per me, tende a non rimanere fermo lì dove la carta geografica vuole che stia e dove la storia pretende di collocarlo.
In base all’atlante, infatti, il Portogallo non ha niente a che vedere con il mediterraneo. E’ un fatto.
Eppure io sento che il mediterraneo non gli è estraneo e che, anzi, questo paese esclusivamente atlantico ne è, per vie misteriose, completamente intriso e si trova proprio là dove il mediterraneo, pur senza esserci, c’è in modo inequivocabile e c’è, forse, ancora di più proprio perché non c’è; vi diviene presenza invisibile e, perciò, impossibile da afferrare, circoscrivere e ridurre a oleografia.
Il mediterraneo e il Portogallo sembrano avere nostalgia l’uno dell’altro e questo paese trova posto, per me, in un luogo che, pur identificabile geograficamente, rimane dunque etereo, concettualmente vaporizzato, un punto cieco del tempo e dello spazio al confine tra la lontananza estrema e l’estrema vicinanza.
Che il poeta più rappresentativo della sua letteratura sia Fernando Pessoa non è, allora, un fatto fortuito ma un sigillo del destino.
Pessoa come il Portogallo, non è geograficamente disponibile e, anche per lui, l’identificabilità biografica è solo un piano inclinato lungo il quale scivolare impercettibilmente verso la lontananza estrema (o l’estrema vicinanza…) di un eteronimo.
L’architettura portoghese ha, nel corso degli ultimi decenni, contribuito a questa mia impressione precisando, se così si può dire, questo imprecisabile e fornendogli una realtà costruita.
La sua modernità appare infatti perfettamente delineata, senza ombre né mezzi toni eppure, nello stesso tempo, lascia trasparire, dietro le sue scelte formali e anche tecniche, una realtà artigianale e una propensione culturale che non ha nulla da spartire con quella specie di rappresentazione scenografica del moderno cui ci ha abituato, negli ultimi anni, l’architettura più à la page di altre parti del mondo.
Se ne sta in disparte, con la sua strana modernità inattuale e sembra collocarsi anch’essa in quella terra di nessuno, tra estrema lontananza e vicinanza estrema, dove trovano fine e origine gli arcobaleni, luoghi della nostalgia per eccellenza.
In quest’antinomia trova la sua cifra che però, proprio per questo particolare carattere aporetico, non si configura come cifra stilistica ma si disegna piuttosto in tratti vagamente fisiognomici e caratteriali. Nelle architetture portoghesi si riconosce un’aria di famiglia che, tuttavia, non diventa mai griffe di maniera.
L’architettura portoghese ha perciò saputo (finora) mantenere un andamento discreto e non troppo assertivo, una certa tendenza a defilarsi e a non perdere la testa (nonostante il successo internazionale e un paio di Pritzker) e, tutto, proprio grazie a questa sua strana capacità di assentarsi e di non rispondere all’appello assordante dell’attualità e della maschera stilistica, come invece capita sempre più spesso all’architettura contemporanea di altre nazioni.
E gli architetti portoghesi si sono mostrati capaci (finora) di frequentare la vastità del poco, ma di farlo senza l’enfasi, a volte stucchevole, che vi pongono altri (penso a certi “minimalisti” per partito preso che umiliano il poco conciandolo per le feste …).
Tutto questo potrebbe apparire strano, per un paese che col Manuelino ha portato a spasso l’architettura dal gotico al barocco, per via diretta e, in pratica, senza tappe intermedie (e la cui lingua ha coniato, per di più, l’ultimo termine).
Non lo è poi tanto, però, se ci si ricorda della propensione all’aporia di cui s’è detto prima e che già se ne sta, nascosta, nella stessa etimologia della parola barroco, che indicava, a quanto pare, una perla di forma irregolare: cioè una perla che nega proprio quella sfericità che ne dovrebbe fare una perla.
La cappella Arvore da Vida è stata progettata e costruita dagli architetti Cerejeira Fontes.
Si trova a Braga, che è una città di chiese e di conventi (per quanto Josè Saramago, quasi per confermare la propensione portoghese al paradosso, nel suo Viaggio in Portogallo ne faccia iniziare la visita proprio dal più pagano dei monumenti: La fonte do Idolo …).
La sua collocazione, tra questi edifici religiosi, appare tuttavia piuttosto originale.
Essa, infatti, non trova posto, come le sue compagne, sotto il sole e al soffio delle brezze, bensì al coperto e al chiuso: nel cuore di un'altra architettura.
Il termine Cappella deriva dal latino capere che vuol dire avvolgere e contenere e in quest’architettura potrebbero dunque sospettarsi intenti etimologici: essa è, certo, un contenitore ma è anche, per la sua dislocazione, contenuta.
Della parola contenere elabora dunque ambedue le forme, la passiva e l’attiva.
Appartiene alla specie della Porziuncola: anche quella, insieme, contenitore e contenuto.
Vi appartiene tuttavia in modo anomalo ed elabora ulteriormente l’aporia già contenuta in tutto questo contenere, perché, contrariamente alla cappella francescana, nasce dopo e non prima dell’ambiente che la accoglie.
La basilica di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi, ospita fisicamente, com’è noto, la Porziuncola ma, in realtà, ne è, liturgicamente, ospitata (in senso anche etimologico, e cioè popolare, leitos, e fattuale, ergon) quest’ultima, infatti le preesiste sotto ogni riguardo (temporale, spaziale e anche ideale) ed è, in fondo, la sua prima e unica ragione d’esistenza.
Qui le cose stanno diversamente, perché è invece l’ambiente che ospita la cappella Arvore da Vida a preesisterle e a fornirle motivo di esistenza.
Mentre ad Assisi lo scrigno, insomma, viene dopo e si configura in funzione del contenuto, a Braga è il contenuto a essere riposto dentro uno scrigno preesistente, il quale, dunque, pur non configurandosi in funzione di esso, ne è tuttavia, in qualche modo, trasfigurato.
In ambedue i casi tuttavia si percepisce il medesimo aroma che definirei come appartenente alla specie dei profumi d’infanzia.
Nelle dimensioni, nella collocazione e nella configurazione di ambedue le cappelle, la componente ludica è percepibile in modo evidente e, nel caso di Braga, non si tratta, io credo, di un esito fortuito.
La nuova cappella si enuncia come un oggetto perfettamente definito, in sé concluso e del tutto autonomo.
Non solo figurativamente.
Costruito altrove, con una tecnologia e sistemi costruttivi che non hanno nulla a che vedere con quelli dell’ambiente ospitante e poi trasportato e montato in loco, non ha cercato in alcun modo di annullare, o anche solo di nascondere o diminuire, la sua alterità.
Anzi, si è attestato proprio come immissione imponendo sempre, tra esso e l’esistente, una soluzione di continuità perfettamente percepibile.
Pur essendo un contenitore ama dunque mostrarsi con evidenza come contenuto.
E’ una boite a joujou abbastanza grande da poterci entrare, ma anche un piccolo meccano (o, meglio, una costruzione in balsa) riposta dentro la stanza dei giochi.
Contenitore e contenuto allo stesso tempo conduce con tranquillo stupore questa duplice esistenza.
Ci entriamo come si entra in una casa di bambole o nella casetta dei bambini costruita in soggiorno: facendoci più piccoli.
Questo cambia, ovviamente, il modo in cui percepiamo, le cose e le persone che ne sono ospitate e anche, per la trasparenza di cui questa casetta infantile è portatrice, le cose e le persone che non ne sono ospitate e che ne restano fuori.
Perché (… ed è questa l’altra sua particolarità aporetica) quest’oggetto così perfettamente definito, separato, delimitato, quest’oggetto così perfettamente oggetto, è in realtà trasparente.
Il legno, materiale con cui è costruito (e, in sé, non trasparente) rimane qui allo stadio di ossatura e non si fa pelle, dunque non nasconde l’interno e lascia intravedere l’esterno.
In tal modo la cappella intreccia, letteralmente, il visibile al non visibile e li combina con un procedimento puramente costruttivo: senza indulgere ad argomenti decorativi o puramente simbolici.
Scatola dei giochi e casa di bambole, come si diceva, essa è, nello stesso tempo, capanna e, per quella trasparenza, anche albero (com’è, del resto messo perfettamente in evidenza da uno dei primi disegni dei progettisti…).
Perché, in fondo proprio nell’idea di capanna si nasconde, protetta, l’immagine dell’albero (topos dell’architettura, si pensi a Ledoux e alla sua casa del povero…) così come nell’immagine stessa della natura, traspare, sempre, l’abitare dell’uomo.
Anche per questo, appena ne attraversiamo la soglia, questo luogo (attraverso le cui pareti continua a trasparire quello che solo approssimativamente e molto imprecisamente possiamo chiamare ancora un esterno…) ci riconfigura in modo inusitato.
Difficilmente, sospetto, un ambiente opaco avrebbe potuto situarci, dislocandoci in modo altrettanto deciso.
Difficilmente un ambiente ermeticamente chiuso avrebbe potuto mostrarci così chiaramente la fragilità del nostro essere al posto giusto: adulti, maturi, razionali e invulnerabili all’irruzione del non visibile.
Perfettamente conclusa e protettiva, quest’architettura, non ci protegge in maniera esclusiva e la sua ospitalità non è coattiva, non si appropria perentoriamente del nostro sguardo e non lo espropria.
Essa lascia che quello sguardo scivoli nell’intreccio inestricabile del visibile e del non visibile, costruttivamente intessuti tra loro.
Attraverso la costruzione di un edificio che è, nello stesso tempo, aperto e visibile dall’esterno (che, infine, resta anch’esso un interno …) ma intimo e perfettamente definito al suo interno (che tuttavia rimane, in qualche modo, pur sempre un esterno …) è stata elaborata dai progettisti una delicata dialettica tra il vedere e il non vedere che ricorda quella di una Mashrabiya.
La cappella non potrebbe essere più definita di cosi: in senso proprio e figurato.
E’ definita come luogo di culto e lo è come spazio fisico.
Non si abbandona alla facile lusinga dell’informale e alla fatua complicazione dell’arbitrario cui troppa architettura contemporanea, miseramente, cede e, soprattutto, non concede nulla al pathos della spettacolarizzazione.
Eppure, in questa sua definizione non si chiude in se stessa e non rifiuta ciò che rimane fuori dai suoi limiti: traspare e, in questa trasparenza, lascia che ciò che non possiamo vedere accarezzi quello che vedere possiamo.
Quest’architettura non si concentra programmaticamente su se stessa e si dona piuttosto in trasparenza, quasi rimandando ad altro.
Pur nella sua definizione e, anzi, proprio grazie a questa definizione, si dichiara pressoché inesistente, invita il suo ospite a farsi, anche lui, trasparente, lo dispone al cambiamento di stato e lo tiene in quella specie di imprecisione esistenziale che costituisce il nucleo di ogni percorso verso il sacro, verso quella consapevolezza non discorsiva in grado di indicarci che il nostro non è uno stare e che noi non siamo solo noi, ma siamo anche altro.
Attraverso la trasparenza, insomma, questa cappella ci rimette in gioco.
E, quando parlo di gioco, mi riferisco al gioco come incastro impreciso che non ci fissa in una posizione rigida e inamovibile e anche, come scrivevo prima, al ludus infantile.
Ciò non dovrebbe apparire irrispettoso o riduttivo: sono proprio i Vangeli, infatti, a rimettere sempre in gioco il credente (in ambedue i sensi) ed è proprio la liturgia che, poi, rimette sempre in gioco il praticante (in ambedue i sensi).
Il cristiano non può immobilizzarsi nel suo essere sensatamente, grevemente, ottusamente adulto: se si fissa, il cristiano, si abolisce.
Il cristiano dovrà, per mantenersi tale, farsi piccolo, imparare a diminuirsi e riconquistare la sua infanzia (Matteo 18,3-5; Matteo 19,14; Marco 9, 37; Marco 10, 14; Luca, 18,16 …).
Lì potrà trovare, forse, il senso di quella spoliazione, di quello svuotamento capace di proiettarlo liturgicamente nella dimensione della Kenosi, luogo da cui, davvero, emana la luce dell’esperienza cristiana.
Perché è nella Kenosi che il cristianesimo vive l’aporia suprema, quella del Dio - uomo.
Ora, l’aporia, sempre, ci mette in gioco e, perciò, per abitarla è necessaria un’umiltà radicale che scuota alle fondamenta la solidità e la certezza del nostro stare fissi.
Qui non potremo giudicare e decidere con razionalità adulta in un senso o in un altro, perché questa fermezza priva di gioco annullerebbe ciò che, in quell’aporia, si nasconde come un barroco, una perla non sferica.
Qui dobbiamo privarci delle molte abbondanze dell’intelligenza, disfarcene e cominciare a praticare finalmente la vastità del poco.
Nell’aporia la causalità è zavorra ma non è questo che conta: ciò che conta è che quell’assenza di causalità ci alleggerisce di una buona percentuale di noi stessi, la più arrogante.
Dobbiamo insomma, diminuendo, imparare l’umiltà della croce.
E, se non sbaglio, è proprio la croce, per il cristiano, l’albero della vita.
Simone Weil ha scritto che l’umiltà altro non è che l’attenzione.
L’umiltà, naturalmente, è particolarmente necessaria all’architettura. No, di più.
L’umiltà è la forma che assume la necessità in architettura, perché l’architettura è essenzialmente la forma fisica dell’attenzione nei confronti delle cose.
Il modo in cui quest’attenzione si costruisce.
Attenzione, naturalmente, per quello che esiste ma soprattutto per ciò che ancora non esiste, attenzione per il visibile e soprattutto per l’invisibile: per ogni cosa o evento possibile.
Quest’attenzione segue, però un’orbita centrifuga e non centripeta: non deve, in altre parole, concentrarsi su se stessa ma fuggirne via, abbandonando la ricerca intenzionale di una bellezza autoreferenziale.
Perché l’hybris si fonda e vive sul narcisismo e tanto più prezioso, per un architetto, è il dono dell’umiltà quanto più diffusa è, oggi tra gli architetti, l’hybris narcisista che fa di ogni progetto la sazia espressione del proprio ego.
E solo l’umiltà può, impugnare il rasoio di Occam senza aver paura di farsi male: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
Nella cappella Arvore da Vida s’incontrano, in un gesto artigianale umile e del tutto privo di arroganza, la felicità rigorosa e geometrica del concluso, del delimitato, del definito e quella del viaggio infantile verso l’ignoto, viaggio in barca o in mongolfiera.
Questo piccolo spazio declina la contentezza del bambino che si costruisce una casetta in salotto col cartone due sedie e un tavolino (tanto più gioiosamente efficace quanto più perfettamente, geometricamente, definita) e vi s’insedia in assetto da viaggio, chiudendo gli occhi e immaginando che quel guscio s’involi verso il mistero.
Quello spazio, come abbiamo sperimentato tutti almeno una volta nella nostra vita, era abitato dalla pace e dal silenzio come nessun altro; noi vi eravamo al sicuro, perché quello spazio, in realtà, ne delimitava un altro, tutto interiore.
Ed è in questo spazio interiore, infantile e trascendente allo stesso tempo, che, appunto, s’insedia il senso del sacro. E questo spazio, nel cristianesimo, s’intreccia inestricabilmente a un tempo, quello della liturgia (Vaticano II, Sacrosantum Concilium, 7: “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado.” ).
Nell’immagine (banale, mi rendo conto, e tuttavia inevitabile …) della barca e, insieme, della capanna noi scorgiamo l’arca e, con il suo spazio chiuso ma, insieme, viaggiante, la possibilità di stare e di andare nello stesso tempo: quest’ibrido affascinante, quest’aporia mobile tra il viaggiare e l’abitare.
E, mi chiedo: cos’altro è il rito, cosa la liturgia, se non questo rivivere tempi e spazi differenti, questo trovarsi qui, abitatori, eppure altrove, viaggiatori?
Cosa, se non questa possibilità di muoversi (di giocare) in un tempo e in uno spazio che, pur rimanendo contigui al tempo e allo spazio “di fuori” non sono, tuttavia quel tempo né quello spazio ma un altro tempo e un altro spazio?
La liturgia non nasconde, ai miei occhi, il suo statuto ludico ma me lo mostra trasceso in un’autenticità che non richiede la cauzione del reale (di questo reale).
La liturgia è, in altre parole, autenticità che fa a meno del visibile: il pane è pane, il vino è vino e tuttavia, in un senso più autentico anche se meno visibile, il pane è il corpo, il vino è il sangue.
Ecco come la liturgia ci (e si) mette in gioco: intrecciando visibile e invisibile, nell’orizzonte di un’autenticità che non ha bisogno di quel reale al quale l’adulto accondiscende supinamente.
Ci si muove con circospezione in questa cappella perché si è consapevoli di trovarsi in uno spazio esiguo e liminale e anche le parole che vi sono pronunciate, trovano ad accoglierle il medesimo stupore infantile con cui vi si entra e vi si risiede.
E non è solo la percezione di quello che si trova all’interno dei suoi confini a mutare.
Anche la percezione dello spazio esterno, come ho già detto, muta e noi non abbiamo più a che fare con le pareti della camera del seminario che ospita la nuova presenza ma con qualcosa che s’interpone tra questa e quelle: un’intercapedine spaziale che proietta il luogo ospitante a una distanza indefinita e noi, dentro la cappella, a un’indefinita profondità.
Questo luogo, così minuto e fragile, interpone sempre un intervallo tra sé e l’ambiente che la ospita.
Distacco necessario, del resto, perché una qualsiasi contiguità o coincidenza avrebbe posto fine al suo gioco.
La cappella non aderisce al seminario, neppure là dove la gravità sembrava imporlo: sul pavimento. Qui essa si stacca con un espediente che assume valore simbolico e poggia su un’intercapedine che ospiterà dei libri.
Il valore simbolico che questi libri, su cui la cappella, letteralmente, poggia, certamente assumono, viene dopo la volontà puramente architettonica, costruttiva (e pienamente ludica) di staccare questo piccolo spazio dall’ambiente che lo ospita anche sul piano più adulto di tutti: quello orizzontale del pavimento, piano della realtà, della razionalità e della consapevolezza discorsiva.
E’ così che accade, sempre, alla buona architettura, nella quale è la necessità architettonica a imporsi, mentre il simbolo segue quella necessità e non la precede mai.
Solo la cattiva architettura, infatti, commercia intempestivamente coi simboli: la buona sa lasciare che il simbolo le si offra in dono.
Ciò che fisicamente sta oltre la definizione della cappella (parete cieca o fonte di luce, pavimento o soffitto) sarà dunque importante tecnicamente (e intendo la parola “alla greca” … nella vecchia accezione del termine tecnè) ma non sarà decisivo.
Quello che davvero decide è, a mio avviso, quello stacco, quella distanza, per quanto minima, che l’involucro della cappella stabilisce tra se e lo scrigno che la ospita, perché è proprio quella distanza che consente la trasparenza (che in caso di coincidenza non avrebbe avuto alcun senso …) perché è in quello iato che accade l’incontro tra il visibile e l’invisibile.
E se escludiamo le due porte poste sulla diagonale della cappella (che, di là dal valore simbolico che si voglia assegnarvi, mantengono comunque una motivazione di tipo funzionale) esiste una sola soluzione di continuità nel fitto dipanarsi di questa trasparenza, in quel tessuto di visibile e invisibile; un solo punto in cui la trasparenza viene a mancare e si apre senza remore e questo punto si trova in alto, al culmine della cappella.
Attraverso tale mancanza l’invisibile viene, infine, invocato e accolto in quanto tale e questo gesto di apertura (che è anche riproposizione di un archetipo, quel punto centrale nella capanna in cui cielo e terra si uniscono e il visibile trapassa definitivamente nell’invisibile, l’axis mundi) diventa, rivolto verso l’alto, un gesto di preghiera, una chiamata e un’offerta.
Ugo Rosa, Caltanissetta, Giugno 2012