Mietiture
Con una installazione di Lúcio Rosato dal titolo evocatico mietiture, usomagazzino saluta l’arrivo dell’estate presentando tre piccoli ma significati lavori di Nicola Febo, Giuseppe Palazzi e Giovanni Segantini.
Da martedì 21 giugno 2016 al 2 luglio 2016, usomagazzino, Pescara.
Nell’ambito delle deiezioni (che aprono ad altre possibilità e direzioni non sempre programmate, a nuovi avvistamenti, provvisorie permanenze e leste evacuazioni) Rosato ci invita a pascolare sul suo tappeto di fieno accogliendoci con queste parole: prima che arrivi il tempo/ad essere falciato, voglio sentire/ancora l’odore del fieno/e del grano: dell’estate insieme/alle mie vacche brune.
Ed è proprio questo soggetto della vacca bruna a tenere insieme i tre piccoli capolavori provenienti dalla collezione di casa Rosato che dialogano raccontando, con tecniche e modalità espressive diverse, la coerenza di tre maestri che in tempi diversi, dalla prima metà dell’ottocento al novecento pieno, si sono occupati con autenticità del presente
Di Giuseppe Palazzi (nato a Lanciano il 18 marzo 1812, in quella che poi nel novecento è stata la casa dei nonni paterni di Rosato, e morto a Parigi nel 1888) possiamo ammirare una felice tela (cm31,5x25) raffigurante una vacca insieme ad un pastorello e un vitellino in un contesto di verde e di cielo; trattasi, come sostiene Angelo Ricciardi, di un lavoro del primo periodo francese di Giuseppe Palizzi che si presenta in ottimo stato.
Alla seconda metà dell’ottocento appartiene invece la piccolissima tela di Giovanni Segantini (Arco 15 gennaio 1858 – Schafberg 28 settembre 1899), austera, essenziale e poetica; Rosato appuntava di un desiderio “vorrei vivere con qualche mucca in casa (Febo, Palizzi, Segantini) e un paio di mucche (da latte) fuori di casa... mio padre dice che intanto vivo ammucchiato!”, per poi segnare sul suo quaderno il giorno in cui ha collocato questa piccolissima tela nel soggiorno della sua casa l’11 dicembre 1999 e di come la sua sola presenza abbia richiesto e subito costretto allo svuotamento dello spazio, all’alleggerimento e alla sottrazione: “ho cenato con la vacca bruna. Non ho saputo resistere e ho appeso un Segantini sopra il camino e la mia stanza ha iniziato a trasformarsi; ho spostato il tavolo per restare seduto al mio solito posto e poter partecipare meglio di questa nuova presenza; 19 x16,5: mi chiedo come una piccola tela con dipinta una vacca bruna possa trasformare la mia serata, il mio umore, il mio animo. Il resto brilla di oscurità riflesse. Presto accenderò il camino”.
L’ultima delle vacche che chiude questa trilogia è un carboncino del 1944 di Nicola Febo (Villa Santa Maria 1904 – Pescara 1987), un lavoro di piena maturità che nella scientificità anatomica anticipa l’attenzione con la quale Febo si è accostato negli anni cinquanta del novecento all’informale, sperimentando la materia e le sue reazioni anticipandone e scavalcandone con determinazione e rigore i suoi canoni generici.