Questa scelta di fondo fa sì che l’aspetto attuale del monumento sia, tutto sommato, infedele.
Il fatto ad esempio che si sia operato esclusivamente sulla cavea (dove per la verità il consolidamento era più necessario), come se si trattasse a tutti gli effetti di una “parte separata” del complesso edilizio, ha fatto sì che venisse confermata e avvalorata quella figura greca di teatro ricavato nel pendio, con la vista aperta sulla pianura ecc., che già aveva tratto in inganno anche in passato qualche storico di fronte alla rovina originale ancora intatta. Ma non soltanto. L’impianto architettonico del corpo scenico con la sua forma caratteristica, certamente dettata dall’orografia del terreno, una forma incerta solo in alzato, è stato tradito, o quantomeno eluso, almeno in de occasioni (anche se non a causa di interventi diretti; salvo il caso paradossale della posizione attuale del proscenio, tanto arbitraria e immotivata da non meritare neppure di essere presa in esame). Una prima volta quando, con la costruzione del piccolo museo addossato a una delle due torri, con i terrazzamenti, i percorsi e il muro in pietra di recinzione ad esso collegati, è stata completamente cancellata la figura simmetrica del corpo scenico rivolto verso la città bassa con le sue due caratteristiche torri aggettanti.
E una seconda volta quando, nel restauro di consolidamento e completamento della cavea in corrispondenza dei paròdoi, si è voluto rivestire tutta la facciata esterna del muro di frontespizio della cavea con pietre squadrate a filari regolari con il risultato di farlo apparire come un muro esterno di contenimento della cavea e non, com’è in realtà, il muro che la cavea e le versurae del corpo scenico hanno in comune, quel muro cioè che salda la scena alla cavea e ne fa quell’unità architettonica caratteristica che è appunto il teatro romano.
Obiettivi operativi e criteri generali
Nell’ipotesi qui descritta anzitutto si prevede, ove necessario, il restauro di consolidamento delle strutture esistenti, o di liberazione (come nel caso del museo di cui si è detto), e il parziale completamento delle strutture murarie antiche emergenti, con l’obiettivo di rendere più comprensibile il complesso edilizio del teatro romano, di rendere più leggibili le sue diverse parti, le relazioni fra esse, le gerarchie, i singoli ruoli, ecc., infine il loro concorrere alla definizione di una forma architettonica articolata e complessa, ma altresì assolutamente unitaria qual è appunto il tipo del teatro romano nella breve storia della sua costruzione e nella sua invece lunga e costante presenza nella storia delle forme dell’architettura.
Si prevede inoltre la ricostruzione di quelle parti essenziali del manufatto del teatro che sono necessarie per una restituzione chiara dello spazio architettonico del teatro romano di Sagunto nella sua completezza. E questo nel rispetto dei resti archeologici, anzi a partire proprio dalle attuali rovine, ivi comprese quindi anche le modeste sovrapposizioni storiche che non siano in contrasto palese con la qualità specifica dello spazio che s’intende restituire, cioè a dire con la sua caratteristica unità. L’unità spaziale di cavea e impianto scenico, principale elemento d’individuazione del teatro romano sul piano della sua architettura, diventa pertanto l’obiettivo primario dell’intervento qui ipotizzato.
Una ricostruzione che dovrà essere quindi anzitutto il completamento delle strutture edilizie del teatro romano, di quelle strutture che sono necessarie alla sua individuazione come tale. Un completamento svolto però secondo un principio di rigorosa economia (una lezione d’architettura che ci viene proprio dalla prassi costruttiva romana), intendendosi con ciò la realizzazione con il minimo dei mezzi di quanto è indispensabile sul piano dell’architettura al raggiungimento dello scopo prefisso, che è appunto il teatro romano di Sagunto, nella sua particolarità, ma anche nel suo essere espressione di un tipo edilizio definito, quanto straordinariamente ricco ed efficace.
Questo significa che il progetto di restauro e restituzione storica non potrà che diventare, a tutti gli effetti, il progetto di un teatro romano (un teatro “alla maniera degli antichi romani”). Cioè a dire, il progetto di un edificio teatrale in parte nuovo fondato sia sul manufatto esistente (letteralmente, materialmente), sia su un tipo edilizio consolidato la cui condizione di necessità è tutta contenuta nella sua forma definita: un progetto cioè che intende raccogliere dal manufatto antico ogni traccia, ogni suggerimento, ogni indicazione operativa, ma anzitutto la sua più generale lezione di architettura e cercare di portarla avanti con coerenza.
Di modo che non solo le sue misure, i suoi rapporti, ecc., risulteranno dall’osservazione e dallo studio del manufatto antico, ma anche quelle scelte tecniche, funzionali, costruttive, decorative, ecc. che si renderanno necessarie nel corso del lavoro, dovranno avere nel manufatto antico e nel rapporto con esso la sola ragione di essere come architettura.
Tutto quanto detto fin qui sottintende naturalmente il riconoscimento del fatto che il teatro romano sia anche qualcosa che va oltre la sua forma soltanto, sia cioè anche un definito tipo di teatro. Un tipo di teatro, cioè un’idea di teatro, certo ancora molto compreso della sua finalità evocativa, rituale, ecc., del suo essere momento collettivo per eccellenza, come tutto quanto il teatro antico, ma anche sempre più aperto alle trasformazioni, sempre più fecondo e spettacolare, attraverso l’estensione di temi (il rapporto sempre più stretto con la vita quotidiana), lo sviluppo delle possibilità tecniche, sceniche, interpretative (dal testo, al canovaccio, all’improvvisazione, ecc.), un teatro già molto vicino a quell’idea di teatro che appartiene alla nostra eredità più diretta. E’ da intendere in questo senso il fine pratico di questa nostra ipotesi di lavoro, che è quello appunto di costruire nello stesso tempo un moderno spazio teatrale ben funzionante. Un teatro “alla maniera degli antichi romani”, come detto più sopra, vuol dire anche un ventaglio ampliato di possibilità sul piano drammaturgico, cui l’edificio risponde con una sempre più ampia attitudine evocativa e con una conseguente maggiore adattabilità. La grande cavea e il prospetto scenico di pari altezza che si fronteggiano: le gradinate scoperte, l’impianto scenico fisso, lo smisurato scenafronte, esso stesso spettacolo nello spettacolo, le _versurae _altissime soltanto come elemento di raccordo, la grande copertura di legno in aggetto.
Tutto questo fissa anzitutto un’immagine di grande spettacolarità, ma indica anche aspettative, modalità, tempi e ruoli definiti e soprattutto una grande disponibilità teatrale, una grande versatilità appunto, di cui si dovrà certo tener conto nella nostra ipotesi di lavoro.
Del resto sono molti ormai gli edifici antichi che vengono normalmente utilizzati per rappresentazioni e, inevitabilmente, a seconda del loro stato di conservazione, l’architettura dell’edificio entra a far parte più o meno integrante dell’azione teatrale. Non molto diversamente accade del resto ad altri tipi di teatri, come ad esempio il teatro Olimpico di Vicenza, quello di Sabbioneta, o il teatro Farnese a Parma (dove anche si pone sempre il problema di un reciproco adattamento).
Lo scenfronte
Certo è che fra gli elementi d’individuazione del teatro romano l’impianto scenico con il suo smisurato scenafronte, proprio perché luogo immaginario per eccellenza dell’azione teatrale, elemento che non cessa di meravigliarci per misure e ricchezza, è anche quello più difficilmente riducibile alla funzione teatrale alla quale siamo soliti riferirci oggi.
E’ proprio il suo incredibile fuori-misura e anche la sua finalità così apertamente spettacolare, il suo fascino straordinario, ma anche la sua insormontabile difficoltà (basti pensare al muro di Orange e ai frammenti architettonici di Merida o di Sabratha).
Infatti di per sé la scena-fissa (cioè a dire, non dimentichiamolo, l’architettura), supporto “astratto” a drammatizzazioni differenti, è elemento ricorrente nell’esperienza teatrale della storia; e anche nel teatro contemporaneo. Basti pensare al ruolo dell’architettura ad esempio nell’esperienza teatrale, pratica e teorica, di un Appia (ricordava Copeau che “…l’idea fondamentale di Appia, cioè un’azione in rapporto con un’architettura, dovrebbe bastare da sola a fare dei capolavori…”), oppure all’ormai mitica scena stabile del Vieux-Colombier di Copeau e Jouvet e a molti altri esempi ancora, per rendersi conto della sua grande importanza, tanto più nella ricerca e nella sperimentazione teatrale.
Ma lo scenafronte del teatro romano è ancora un’altra cosa. Anzitutto lo scenafronte è un fatto assolutamente irriducibile (non sopporta “stilizzazioni” o semplificazioni). Lo scenafronte del teatro romano può soltanto essere preso com’è, un luogo immaginario appunto, un’idea formale in cui teatro e architettura sono completamente confusi, tanto più “finzione” in quanto né l’uno né l’altra si esprimono in esso attraverso i loro specifici modi espressivi. Il termine “decorazione” ad esempio si rivela subito un termine inadeguato, troppo riduttivo per designare questa incredibile idea collettiva espressa in un determinato momento della storia e mai più recuperata nella sua interezza, nella sua complessità figurativa e nella sua chiarezza concettuale: irriducibile elemento necessario dello spazio teatrale romano.
E per noi, grande complessa irriducibile architettura che può soltanto essere presa com’è; del tutto indifferente alla nostra attitudine o meno a costruire grandi impianti architettonici di tal fatta.
Ma, si è detto, lo scenafronte è anche una scena-fissa, una scena stabile. Non è soltanto questo, ma è anche questo: la sua funzione è quella di una scena-fissa.
E come tale è un’astrazione, nel caso specifico una sorta di allegoria, di riduzione araldica di qualcos’altro. E’ convenzione che le tre porte indichino il palazzo e forse la città. E’ forse per questo che lo scenafronte si confonde con le porte e con gli archi trionfali? Oppure con elementi altrettanto enigmatici come i ninfei o i settizoni?
Sappiamo che la grande porta centrale era detta “regia” e quelle laterali “hospitalia”, esse stanno lì a marcare gli spazi necessari, a indicare simmetrie e gerarchie. E le valvae in cui si aprono confermano e moltiplicano tali simmetrie e gerarchie, dividendolo ampliano lo spazio, aggiungono profondità, la dimensione prospettica, l’illusione, l’ubiquità alludendo a luoghi sempre diversi (che saranno più tardi i luoghi deputati delle sacre rappresentazioni; mentre quelle stese porte si apriranno sulle nuove vedute prospettiche dei teatri rinascimentali).
Ecco il ruolo complesso di tali, pochi e esenziali, elementi della composizione dello scenafronte romano ed ecco anche la loro utilità; essi sono i soli elementi funzionali che compaiono sul proscenio, i soli che servono all’azione teatrale. Ci sono poi anche altre porte, porte e finestre, aperture e passaggi di vario tipo, che si moltiplicano in vertiginosi ordini sovrapposti; ma di tutte solo quelle che appartengono all’ordine inferiore, quelle a contatto diretto col proscenio, sono utili all’azione.
Ci si chiede allora quale sia il ruolo di tutto il resto. E con una certa sorpresa dobbiamo riconoscere che, se tutto quello che appartiene al primo ordine dello scenafronte è utile, tutto quello che gli si innalza sopra è in realtà necessario: splendida, irridente contraddizione dello scenafronte romano.
Tutto quello che è utile all’azione teatrale, che partecipa cioè direttamente all’azione, è in realtà non necessario all’azione stessa, mentre tutto quello che a prima vista sembra estraneo, superfluo, perché non rientra nell’azione, è in realtà necessario affinché tale azione possa espandersi, amplificarsi (letteralmente echeggiare). Il suo compito è quello di mantenere intatta su fino all’ultimo gradino della summa-cavea la tensione dell’azione teatrale, e trasmetterla stabilmente al luogo, far sì che essa diventi la tensione propria del luogo (ciò che fa appunto dell’esperienza del luogo teatrale vuoto quell’esperienza unica e insostituibile di cui ci parla Jouvet). Con il suo stesso innalzarsi lo scenafronte svolge il suo compito in modo diretto, materiale, costruttivo in senso stretto, in perfetto accordo sia con l’edificio reale che con il luogo immaginario che raffigura.
Il suo ruolo è insostituibile perché in realtà lo scenafronte romano agisce teatralmente da solo: semplicemente esibendo interamente se stesso. Nella nostra ipotesi noi prenderemo certo in considerazione quella parte dello scenafronte che abbiamo definito utile, ma non potremo in ogni caso ignorare quella che abbiamo riconosciuto come la parte necessaria di esso.
La parte cosiddetta utile, cioè la parte dello scenafronte appoggiata sul proscenio, potremo facilmente ricostruirla, questa possiamo stilizzarla, ad esempio renderla astratta e sintetica, non ci sono difficoltà a farci una ragione dei suoi principali elementi costitutivi: porte e scale monumentali, esedre e zoccolature sono elementi funzionali “neutri”, adatti tanto alla scena-fissa che intendiamo predisporre, quanto al completamento dei pochi reperti archeologici che abbiamo a disposizione.
Ma alla parte soprastante, a quell’incredibile impianto architettonico che è lo scenafronte in tutto il suo sviluppo verticale e la sua ricchezza, potremo solo tentare di avvicinarci per approssimazione, potremo solo tentare di evocarne il ruolo decisivo. Ma come potremo far questo oggi, se ne dichiariamo allo stesso tempo l’insostituibilità, l’irriducibilità? Come potremo farlo, se non mostrandone materialmente l’impossibilità, cioè a dire l’assenza?
Ecco il nostro problema e ecco la sua contraddizione. Ma ecco anche forse la via d’uscita (sul piano tecnico, oltre che su quello metodico e concettuale), proprio all’interno di quella stessa contraddizione.
Il muro del postscaenium
Per esempio. Se noi ipotizziamo di rompere (letteralmente, materialmente) la scatola magica del teatro moderno, del teatro all’italiana, di varcarne il limite misterioso, se ipotizziamo di aprire materialmente la scatola per intravedere anche ciò che sta dietro, la vita che si svolge dietro, l’altra faccia dello scenafronte, il muro del postscaenium, di mostrarla con i suoi meccanismi e gli artifici, perché agisca anch’esso come luogo immaginario, spettacolo nello spettacolo, come emanazione dell’azione teatrale, non facciamo forse, in un certo senso, qualcosa di molto vicino al ruolo svolto dallo scenafronte, visto anch’esso come spettacolo nello spettacolo, visto come ridondante prolungamento della scena-fissa, visto anch’esso come araldica emanazione dell’azione teatrale? E in questo modo non riusciamo forse ad ottenere contemporaneamente anche l’effetto opposto, il risultato che anche ci proponevamo, quello cioè di mettere in primo piano l’assenza dello stesso scenafronte come elemento strutturale dell’azione teatrale? Non ne indichiamo cioè contemporaneamente anche la fine irrimediabile, mostrandone materialmente la rovina? E ancora. Si è detto più sopra che lo scenafronte è anzitutto un impianto architettonico, un impianto architettonico particolare di cui ancora possiamo capire la speciale ragion d’essere. Ma cosa ci colpisce di più oggi di tale scenafronte? La sua ragion d’essere, oppure il suo essere di per sé una straordinaria apparizione? Il suo carattere di necessità, oppure il suo essere ai nostri occhi anzitutto un incredibile sistema decorativo?
Per tentare di avvicinarci il più possibile col nostro lavoro al mondo della figurazione incluso nel sistema architettonico dello scenafronte romano, potremo forse allora, e non a torto, non tanto cercare di sostituirlo con un diverso sistema architettonico (operazione che sappiamo già destinata a fallire), ma piuttosto -mantenendo il problema di tale figurazione sul piano della sua più immediata apparenza (cioè il carattere eminentemente decorativo, spettacolare dello scenafronte)- vedere se non c’è la possibilità di sostituirlo invece con un apparato decorativo, ornamentale che lo possa equivalere quantomeno sul piano della sua stessa capacità evocativa.
L’Antiquarium
A questo proposito può tornarci utile di prendere in considerazione un problema pratico, non secondario, che pure dovremo affrontare nel nostro lavoro. Mi riferisco alla necessità di smontare il piccolo museo archeologico ora addossato a una delle due torri del postscaenium e di trovargli altrove un’adeguata collocazione. Il materiale esposto nel museo proviene in gran parte dalle demolizioni compiute in passato nel centro abitato e consiste in un certo numero di reperti di dimensioni e valore differenti; quasi tutti sono frammenti di elementi decorativi: basi, colonne, capitelli, cippi, epigrafi, e poi diversi pezzi di statuaria, infine dei grandi frammenti di mosaici di notevole interesse. A ciò va aggiunto che la dotazione del museo è destinata a crescere, dopo che di recente si sono ripresi i lavori di scavo, specie nell’area del foro. Se passiamo ora a considerare lo stretto corpo del postscaenium del nostro teatro possiamo ipotizzare che della sua alta sezione verticale solo quella parte che è a diretto contatto del proscenio sarà sicuramente utilizzata dai servizi tecnici del teatro, insieme forse a quella posta sulla sommità, all’altezza della grande capriata praticabile della copertura destinata all’illuminazione artificiale.
Questo significa che tutta la parte mediana di tale sezione potrebbe benissimo accogliere il nuovo museo archeologico. E quest’ultimo potrebbe svilupparsi sia lungo tutto il percorso longitudinale compreso fra i due muri, sia su tutta quanta la superficie rivolta verso la cavea del muro del postscaenium e che non è interessata all’azione teatrale.
Delle due possibilità quella che più c’interessa indagare è naturalmente quella offerta dalla vasta superficie del muro del postscaenium. Possiamo già immaginarlo come un grande e composito trofeo, una specie di smisurato retablo: un Antiquarium tanto suggestivo nella veduta d’insieme quanto adeguato specialmente rispetto ai reperti di maggior dimensione, come ad esempio i mosaici, e a una loro conveniente lettura.
Anche parte della scena-fissa potrà essere utilizzata in questo senso. Costituita da un muro alto tanto quanto è necessario allo svolgimento dell’azione teatrale (cioè dichiaratamente un “frammento”), sviluppata lungo la linea dell’antico scenafronte e interrotta al centro di ogni esedra per lasciare spazio alle tre porte canoniche, la scena-fissa potrebbe accogliere sulla sua zoccolatura quei frammenti più grandi (come colonne, capitelli, trabeazioni, ecc.) che possono richiamare con più immediatezza la composizione architettonica della scena-fissa romana.
Allora, visto dalla cavea, il muro del postscaenium, letteralmente ricoperto dai grandi elementi decorativi, potrà riapparire, da dietro alla quinta sinuosa della scena-fissa, un po’ come quella splendida, fiabesca parete fittamente istoriata dello scenafronte romano che siamo abituati a veder riprodotta nei vecchi libri di storia dell’arte.
Di modo che postscaenium e scena-fissa potranno insieme testimoniare allo stesso tempo splendore e rovina, presenza e impossibilità di essere di nuovo dell’antico scenafronte del teatro romano di Sagunto.
Altre questioni del progetto
L’ipotesi fatta qui sull’uso del corpo scenico e sulla risoluzione architettonica dello scenafronte non esaurisce certo le molte questioni di progetto che pone un programma di utilizzazione e restituzione architettonica come questo.
Tuttavia questa ipotesi indica anche una linea operativa più generale sufficientemente chiara, io credo, sul piano metodico da poter essere estesa anche ad altre questioni del progetto che si pongono contemporaneamente.
Si tratta in sostanza di una linea operativa che non intende perdere di vista né la complessità e la ricchezza dei problemi che ha di fronte, né i limiti oggettivi dei mezzi che ha a disposizione. Una linea che non intende in alcun modo eludere né la qualità specifica dei problemi di linguaggio espressivo che sono cruciali nell’architettura di un antico edificio come questo, né la difficoltà oggettiva dell’architettura oggi messa di fronte a quegli stessi problemi, paradossalmente la sua impreparazione, la sua inadeguatezza. Sarebbe assurdo che noi volessimo affrontare tali problemi in modo diretto, lineare; non possiamo fingerci eredi di quel linguaggio (solo il più languido romanticismo può illudersi di farlo), basta pensare a questioni come quella degli “ordini architettonici” o a quella della “decorazione”.
I problemi cruciali dell’architettura oggi sono altri, sono problemi di senso e problemi formali, connessi alla perdita di un linguaggio comune: si pensi alla condizione presente dell’architettura di fronte al fatto che essa è sempre stata “fatto collettivo per eccellenza”. E in tal senso io credo che l’architettura oggi possa soltanto cercare di dare delle risposte coerenti con la sua condizione. Non c’è altra soluzione, è evidente. Né ci si può illudere di poter ridurre tutti i problemi soltanto a dei problemi tecnico-pratici, a dei problemi costruttivi. In ogni caso la proposta avanzata qui per lo scenafronte indica chiaramente almeno una cosa: che tali difficoltà non devono venire nascoste o mascherate. La contraddizione dell’architettura deve restare scoperta là dove si mostra, cioè nella sua risposta. Specialmente nella risposta (che in architettura è sempre un fatto pratico, materiale). La risposta dovrà sempre rivelare prima di tutto la tensione della contraddizione da cui nasce. Il caso dello scenafronte è certo il più vistoso, ma anche in altri punti di questo nostro lavoro è contenuta una dose particolarmente alta di problematicità in questo senso. Ad esempio nella definizione del perimetro dell’edificio scenico: i contorni del suo volume, la sua completezza o meno, il grado di definizione formale, ecc.; e poi il problema della saldatura con la cavea, della continuità del perimetro complessivo del teatro e così via.
Una risposta univoca, perentoria in questo caso sarebbe in realtà soltanto una risposta elusiva, falsa e lascerebbe le cose come stanno. Per esempio una ricostruzione in stile, un restauro romantico (“come avrebbe potuto essere/come avrebbe dovuto essere”). Oppure, all’opposto, qualcosa di “nuovo” a tutti i costi, qualcosa di orgogliosamente “attuale”. Che senso potrebbe avere una simile soluzione? Quale reale trasformazione potrebbe rappresentare? Quale reale approfondimento rispetto all’edificio antico (il teatro antico: massima espressione dell’idea stessa di esperienza collettiva), se la condizione presente dell’architettura è in realtà quella di non riuscire più a riconoscersi nella sua storia?
La risposta in architettura deve sempre contenere il problema. Una buona soluzione in architettura esprime sempre con evidenza il problema da cui muove. Il suo problema, la sua ragione di essere. Così, nel caso dell’edificio scenico, una buona risposta conterrà sempre e comunque la rovina, il segno della rovina, da cui proviene, su cui s’innalza. E conterrà sempre anche il segno della sua impossibilità (tecnica, espressiva), la sua dichiarazione d’inefficacia. Mi chiedo in quale altro modo questi due segni –il segno della distruzione e quello dell’impossibile ricostruzione- possono coesistere se non nella forma latente, nella forma incompiuta.
E’ lo stesso che per lo scenafronte: la risposta non può che rimanere in una sorta di precario equilibrio, di equilibrio instabile fra queste due condizioni; e tale precarietà deve essere palese. Non credo ci sia un’altra risposta possibile, se non fingendo condizioni diverse per il progetto. Ci sono poi altre questioni, altrettanto importanti, ma la cui difficoltà, la cui problematicità, nel senso indicato più sopra, si esprime in termini meno aspri, meno drammatici per così dire, soprattutto perché si tratta di questioni tutte sostenute da una forte ragione pratica (le questioni distributive, d’uso, relative alle tecniche, ai materiali, ecc.). Per queste ultime sarà sufficiente che soddisfino a una condizione di coerenza, di coerenza formale con la soluzione data alle parti di più difficile interpretazione: voglio dire che la coerenza con tali parti sarà più che altro una questione di tendenza all’unità del risultato complessivo.
Facciamo il caso della cavea. La cavea deve essere ripristinata; i gradini rivestiti, resi agibili, restaurate le scale, le praecinctiones, ecc. Per coerenza con gli altri interventi, si può ipotizzare di ripristinare soltanto una parte di essa (anche una parte consistente di essa, ad esempio la parte centrale meglio dislocata rispetto alla funzione teatrale), in modo che anche qui traspaia la rovina, in modo che affiori, e in modo che anche in questo caso la soluzione architettonica non abbia un carattere definitivo, concluso.
Lo stesso dicasi per la questione del completamento della summa-cavea. Il fatto di assumere come obiettivo operativo la rovina del teatro allo stato in cui si trovava ai tempi di Ortiz e di Laborde (prima cioè delle demolizioni del 1811) e da questi diligentemente documentato, può essere una buona soluzione proprio perché la rovina della summa-cavea a quella data rappresenta una sorta di condizione sufficiente per restituire la struttura architettonica della summa-cavea stessa e del suo muro di contenimento.
In realtà si tratta di una scelta molto importante per il progetto perché determina la quota massima di altezza di tutto il complesso edilizio: fissa perciò in modo definitivo l’altezza massima del corpo scenico, quella delle versurae e la posizione del colmo della copertura in legno del proscenio. Avrà infine una certa importanza anche il restauro di liberazione dell’intero perimetro del complesso scenico, alla quota della piazza sottostante, da tutte quelle strutture aggiunte che ne impediscono una chiara lettura e di cui già si è detto (il museo addossato alla torre est, la recinzione e le varie scalinate d’accesso in pietra, i servizi igienici addossati alla torre ovest, ecc.); così come la scelta dei punti più convenienti per accedere separatamente al monumento e al suo museo e al teatro quando è in funzione. Mentre la dettagliata destinazione d’uso degli spazi interni al corpo scenico o ricavati nelle sottomurazioni (postscaenium e torri) sarà dettata esclusivamente da considerazioni di ordine pratico relative al buon funzionamento di un moderno spazio teatrale.