il racconto del vuoto
ampliamento degli uffici della G.d.F all'aeroporto internazionale di Capodichino
C’è un che di immutabile negli uffici burocraticamente statali. Dal dopoguerra ad oggi. Le stesse scrivanie con i cassetti di metallo e il piano in finto legno. La carta geografica appesa alla parete [le distinzioni appartengono solo a coordinate geografiche]. La poltrona in vilpelle. La stessa polvere.
Nell’aeroporto internazionale di Napoli dove tutto è minuziosamente curato, levigato e scintillante una nicchia di ufficio così è una contraddizione stridente.
Non ho fatto altro che immettere una distonia. Né potevo fare di più per le condizioni e i limiti dell’appalto. Ma è stato sufficiente a rompere lo schema [principalmente di abitudine al nulla]. Pareti di vetrocemento [un materiale che uso di tanto in tanto, mi interessa al di là dello scarso appeal che oggi suscita] pareti bianche e poco altro. Una modernità neanche tanto spinta. Ma con un punto di domanda. C’è da costruire un’identità originale.
Così rintraccio la narrazione di un vuoto. Il suo monumento: la poltrona inerpicata sulla scrivania. Come un’installazione di Damien Hirst. Che è di nessuno [chi si può mai identificare con spazi simili ovunque?]. È un piccolo progetto. Ma rimanda a un tema. Due linguaggi, uno suscita le ragioni dell’altro come una necessità. È la regola della narrazione.
Lo stato delle cose si cambia raccontandole diversamente. Vorrei che lasciasse l’impronta di un’inquietudine. Subito dopo ci può essere l’appartenenza. E la cura.
collaboratori: Francesca Parisi; Fabio Palma.
fotografie: Luigi Spina