S(c)isma dell'immagine
Laboratorio Integrato per la Conservazione 2 A.A. 2009-2010 - Università Iuav di Venezia
Parte I
Il pensiero
- Immagine 1 i numeri
- Immagine 2 il dramma
- Immagine 3 l’imprevedibile
- Immagine 4 l’impotenza
- Immagine 5 l’analogia negativa
- Immagine 6 il pathos
- Immagine 7 il solidus
- Immagine 8 la ripetizione arcaica
- Immagine 9 la maschera
- Immagine 10 l’anonimato dei morti
- Immagine 11 l’archetipo terribile
- Immagine 12 l’invisibile
Parte II
Bagno Grande: trigonometria del nome
# - *Il sito: la presenza
1.1-Topografia
1.2- Morfografia
1.3- Crittografia
# - *Il primario: il significato
2.1- Norme tecnico-legislative
2.2- Requisiti funzionali
2.3- Assetto
# - *Il secondario: il significante
3.1- Natura
3.2- Storia
3.3- Dramma
3.4- Speranza
Parte III
La forma
Parte I
Il pensiero
Immagine 1: i numeri.
Terremoto dell’Abruzzo: 6 aprile 2009; ore 3,32 di notte; magnitudo scala Richter 6,3; magnitudo scala Mercalli 8,9; epicentro, Onna; ipocentro, 8 km di profondità; 310 vittime; 1600 feriti; 65.000 sfollati; 15.000 edifici tra danneggiati e distrutti.
Immagine 2: il dramma.
Nella scarna anatomia delle cifre non c’è spazio per alcun commento, se non per l’ immagine istantanea del dramma. “Prima l’estetico, poi il significato” (R. Calasso). Ed è proprio questo apparire fulmineo - terribile, tragico, cruento, cinico - che invade i nostri occhi, trapassa la mente, imprime, come un marchio rovente, la carne degli uomini, le fibre delle cose. Indelebile, lesiona ogni anima. E’ immagine dell’ineluttabile, del dolore, della frattura, della disperazione, della perdita. Potente e allucinatoria, deve essere elaborata e decifrata per poterla sopportare. Per non soccombere alla sua persistente presenza: ossessionante, furiosa, devastante.
Immagine 3: l’imprevedibile.
Nonostante attribuiamo alla “tecnica moderna” (E. Severino) la sovranità del sapere, di fronte all’imprevedibile della natura e della storia siamo sempre impreparati. In tutti i sensi. Non c’è attualmente alcuna possibilità di previsione che possa anticipare l’imprevedibile. Dipendiamo e siamo appesi ad una latente e perpetua incertezza. Eppure affidiamo magistralmente alla razionalità tecnico-scientifica il principio di certezza alla validità del nostro operare. Una validità assai labile, però, fino a quando l’irrazionale, ossia l’imprevedibile, non irrompe improvviso sulla scena del mondo. Devastandola. Se nemmeno il suolo che calpestiamo, ma che ci sorregge, possiamo considerarlo un fondamento certo e sicuro, come possiamo affidarci e fidarci di una “tecnica” che: (1) ha sistematicamente annullato ogni fondamento; (2) ha voluto elevare il divenire a effige della propria dottrina; (3) che infine è impotente, paradossalmente, proprio di fronte al divenire, che invece vorrebbe dominare e guidare.
Immagine 4: l’impotenza.
In effetti, però, non è esattamente l’incapacità di previsione il problema che più ci interessa della “tecnica moderna”. Per ora è preoccupante il contraccolpo che essa subisce da questa sua stessa incapacità. Se il sapere contemporaneo si “fonda” (e non sarebbe già questa affermazione una contraddizione in pectore?) sulla sostituzione della verità con la certezza, la certezza in quanto dominio dei principi e delle cause, è davvero impotente, completamente inerme davanti al divenire del suo opposto: l’imprevedibile. Ossia: l’intero edificio della razionalità della certezza, voluto dalla tecnica, crolla inesorabilmente. In sintesi: il sapere tecnico-scientifico non riesce a dominare, anche se vorrebbe, l’invisibile potenza della natura. Certo la stravolge, la manipola. Ma fino ad un certo limite. Solo per una certa parte. E questa parte la chiamiamo per comodità il visibile (1/4) dal quale è esclusa la parte maggiore, l’ invisibile (3/4) (R. Calasso). Solo la loro somma (1/4+3/4) corrisponde alla totalità dell’apparire. Dunque dell’ estetico. Ed è proprio rispetto alla porzione maggiore del “reale” (V. Nabokov) che si misura l’impotenza totale della “tecnica”. Perché? Il sapere tecnico-scientifico, sotto lo scudo del nichilismo contemporaneo, schiaccia tutto sulla presenza. Banalmente sulla apparenza materiale. Su quello strato più sporgente dove si materializza lo spirituale, quando l’ invisibile arresta la sua azione plastica con il visibile. Senza questi immensi giacimenti delle potenze invisibili (mitico-divino-metafisiche) il visibile si pietrifica (Medusa). Frantumato, il “reale” viene divorato. Si dissolve sotto l’azione ripetitiva e corrosiva degli automatismi tecnico-scientifici: disgiungere, separare, differenziare, scomporre, isolare. In conclusione: il mondo è pensato e visto, proposto e restituito non già, figuriamoci, come cosmo (Platone), ma nemmeno come caos (Esiodo). Bensì, come il caotico, ammasso provvisorio e irrelato. Appunto: senza relazioni e vincoli tra le parti. E poiché la relazione è l’ assoluto estetico, (questa sì è legge invalicabile), il sapere tecnico-scientifico non può che esprimere l’ aestetico o l’ inestetico. Un paradosso rispetto al “reale”, per compiere camuffato, il crimine dello stupro (J. Baudrillard).
Immagine 5: l’analogia negativa.
L’evento di un terremoto spezza la continuità del tempo in due fasi cruciali: emergenza e ricostruzione. Se la prima richiede un dispositivo “militare”, la seconda richiede un dispositivo “culturale”. In altre parole. L’evento tragico non accade mai al di là o al di fuori di un determinato apparato conoscitivo, e pertanto di un certo dispositivo culturale. Natura e cultura sono sempre strettamente vincolate, nel bene e nel male. E noi, ora, siamo nel centro del nichilismo tecnico-scientifico. Distinguere perciò fin da subito emergenza e ricostruzione come se fossero due categorie temporali, significa paradossalmente subire implicitamente la logica analitico-scientifica. Comunque, consapevoli di questa inevitabile incongruenza, le due fasi non dovrebbero essere considerate disgiunte, ma contenute una nell’altra. Reciprocamente. Anche perché la particolare e fragile condizione storico-paesaggistica del nostro paese ha nel proprio patrimonio fisico la massima espressione metafisica (o trascendente, spirituale, theologica). Ma ciò che qui preme innanzitutto evidenziare è un’altra questione, ben più importante: la relazione tra causa e risposta. Tra l’evento tragico della natura e i dispositivi della cultura tecnico-scientifica (e non certo metafisica). Osservando i comportamenti dei due ambiti, natura-cultura, emerge una forte analogia negativa tra violenza improvvisa della prima e violenza mascherata ma reiterata della seconda. Sotto l’urto del terremoto l’ordine delle cose esplode. Tutte le relazioni tra le parti si dissolvono. I nessi si strappano. Dunque, tutto ricade nell’irrelato. Ma l’irrelato non è forse il sottofondo comune che muove il pensiero e l’azione del sapere tecnico-scientifico? Non è forse quella potente leva che agisce indisturbata nelle nostre menti come nelle nostre opere per scardinare l’unità del mondo? Certo, ma con una differenza che è un’aggravante non irrilevante. Una differenza temporale. La violenza del terremoto è imprevedibile e concentrata. Quella nichilista è prevedibile e dilatata. Per mettere a confronto quanto detto dovremmo, con un qualche sforzo di sintesi, visualizzare in immagine l’Italia, o se vogliamo anche il resto dell’Occidente, almeno nell’ultimo mezzo secolo della nostra epoca. Le periferie urbane, gli agglomerati metropolitani (la synoikia di Platone), la devastazione del paesaggio, (questioni che ci agitano da sempre, senza mai volerne individuare le cause) non corrispondono forse a quel lento ma inesorabile scuotimento - scisma - che la nostra cultura tecnico-scientifica imprime al reale per strappare - sisma - le forme concrete e metafisiche nell’informe socio-funzionale? Ovvero, nell’irrelato universale e individuale? Come può logicamente il sapere tecnico-scientifico proporre i rimedi alle catastrofi naturali quando nel suo ipocentro ontologico coltiva la dissoluzione? La catastrofe perpetua? La cultura nichilista non agisce forse come un terremoto estremamente rallentato ma enormemente più vasto e distruttivo che dilaga ormai sull’intera scena del pianeta? Le attese risposte alla ricostruzione post-terremoto come possono allora giungere dal paradigma tecnico-scientifico? O ancora peggio. Dall’inconsapevolezza del pensiero rispetto al paradigma nichilista?
Immagine 6: il pathos.
Nella relazione tra natura e cultura s’insedia comunque un terzo: il medio delle emozioni. Quando un terremoto colpisce non fa alcuna distinzione tra la vita di tutti gli esseri: umani, animali, vegetali, materiali. Nemmeno si preoccupa di distinguere i valori dai disvalori, o i sentimenti dai monumenti. Tutto è soggetto alla sua devastante potenza. Questo, purtroppo, il senso del tragico. Ma la violenza, contrariamente al detto comune, non è cieca. E’ che essa agisce sempre e inevitabilmente all’interno della verità del tutto: dell’unità relazionata. Potrebbe fare diversamente? Non basterebbe già questa banalità per comprendere le leggi indissolubili dei vincoli (G. Bruno). In sintesi: il terremoto non può che essere fenomeno che coinvolge l’intero apparire. Ossia, l’ estetico: inteso nei suoi due immensi bacini costitutivi:visibile e invisibile. Mondo esterno fisico e mondo interno psichico. La loro somma: il divino. Come un’ immagine allo specchio si riflettono reciprocamente. La frattura anticipa la ferita. Il dramma il dolore. Ma se nell’ipocentro del terremoto si radunano le forze sismiche, nell’ipocentro dell’anima si coagulano le potenze emozionali. Per contro, si rovesciano le conseguenze. L’esplosione del dolore irradia di luminescenza un universo di immagini spente - intime, arcaiche, mitiche, familiari -, avvolgendo i luoghi e le cose in un tessuto di intermittenze metafisiche. In effetti solo il pathos, dilaniato nella materia e nella sostanza, cerca a tutti i costi la rimarginazione. Cerca di riconnetterne i nessi. Quello il suo modo per guarire. Ovvero: più forte è la ferita, maggiore la passione dell’ immagine: che è potenza ingenerata, formante, plasmante. Così che l’ immagine, intima, inaccessibile, si pone come un ponte tra i lembi della ferita. Mantiene la distanza tra i bordi ripristinandone però la relazione: presenza-assenza, immanenza-trascendenza. La premessa di una “rivelazione” (J-L. Nancy) che non si esaurisce. Con il pathos, tempo e spazio, luoghi e vissuto si fondono nell’epos. Nell’intemporale e nell’aspaziale dei luoghi e delle emozioni: “i sommovimenti geologici del pensiero” (M. Proust). Il pre-universo delle forze tettoniche, dei sommovimenti delle placche terrestri.
Immagine 7: il solidus.
Tra geologia e patologia scorre una sorta di intima “super-simmetria”, quella teoria unica e onnicomprensiva dell’universo, sogno e speranza di tutti gli scienziati. La prima reazione alla causa distruttrice è la risposta unanime della solidarietà. Il pre-universo emozionale, rispetto a quello razionale, si raduna e si concentra nei luoghi del dramma. Come se vi fosse una legge non scritta ma impressa nell’inconscio del mondo, al primo movimento dissolutivo corrisponde un secondo movimento condensativo uguale e contrario. Quasi una sussulto alla scala cosmica del nostro dualismo respiratorio o cardiaco. Comunque tra azione fisica e azione emozionale, tra potenza della natura e potenza del pathos, scatta il primo passo verso l’acquisizione di un nuovo immutabile equilibrio. Verso la ricostituzione dell’unità infranta. La solidarietà, la cui etimologia non è incerta - solidus: solido, duro, ben piantato, robusto, compatto - è il contraccolpo emozionale alla lacerazione dei nessi. Riconnettere i vincoli di quanto è stato strappato e divelto a livello fisico significa allora attraversare tutte e quattro le gradazioni della sostanza universale: anima, mente, natura, materia (G. Bruno). Contrariamente alle nostre convinzioni scientifiche, il mondo affettivo ed effettivo dell’ immagine ci viene incontro senza mai allontanarsi dal suo substrato inscalfibile: il divino o, il sacro. Le proprietà irriducibili dell’ estetico e non del dogmatismo religioso, anche se il religioso, in senso laico, indica comunque il raccogliere (..) insieme le parti. Pertanto: l’ immagine vincola e i vincoli liberano. In questo senso il solidus della solidarietà anticipa e prepara il poiein (produrre nella massima economia) della poesia. L’attività estetica per eccellenza, l’azione morale per essenza. Il duplice princípio di quell’ intima “super-simmetria”, al quale affidare il progetto della ricostruzione.
Immagine 8: la ripetizione arcaica.
Riaffermare l’importanza dell’ immagine metafisica - autentica forza plasmante di ogni forma -, significa provocare un terremoto nella cultura nichilista. Almeno per tre motivi. Poiché smaschera: la violenza dell’arbitrarietà individuale; la violenza della cecità (J. Saramago) dei dispositivi tecnico-normativi; la violenza delle immagini quando queste provengono unicamente dal mondo della presenza. Questo tripudio della follia e della tracotanza, come abbiamo già dimostrato, è causato unicamente dall’imponente apparato tecnico-scientifico, che ha scelto di stare sull’unico polo del fenomenico. Della presenza. L’ immagine metafisica agisce, invece, sull’intero plasma universale come sulla totalità della materia, mantenendo però intatta la distanza che li vincola. Alla stregua dell’universo fisico, i poli estremi universale-particolare si comportano come enormi masse cariche elettricamente. Si attraggono e respingono secondo le leggi della simmetria: la forza di gravità e quella elettromagnetica. In ambito estetico queste forze pervasive si traducono nella tensione dell’ immagine. Ma poiché l’ immagine porta sempre la latenza ad un quid di trasparenza, in questo suo processo di disvelamento, arcaico per genesi, ripete all’infinito l’atto iniziale mai ancora concluso: l’origine dell’universo. Solo dopo millenni di oscura opacità, solo dopo essersi formati i primi atomi elettricamente neutri, ossia composti di cariche positive e negative, i fotoni, le più piccole particelle portatrici di luce, furono liberi di espandersi nell’intero universo. Illuminandolo, lo resero finalmente visibile. Come un fascio di fotoni opera l’ immagine metafisica. Ma con un carico diverso. Lei trasporta le più piccole cellule portatrici della forma. Quelle matrici tridimensionali della materia, le uniche in grado di rendere visibile nelle opere gli arcani dell’universo e di rinnovarne nella presenza il loro mistero.
Immagine 9: la maschera.
Ma se il punto di osservazione passa da quelle remote lontananze alle più abituali vicinanze, rimane ancora molto da interpretare in questa terra d’Abruzzo, ostinata ed ermetica. Ciò che non cambia è la natura dello sguardo. Il visibile cessa, allora, di essere la futile pellicola della presenza, come ritiene la cultura nichilista. Quell’unica superficie sulla quale si arresta lo sguardo. Piuttosto, l’apparire assume l’aspetto enigmatico della maschera. Maschera duplice, immagine appunto, con le sue facce contrapposte rivolte verso quelle potenze, ctonie e siderali, che hanno i loro punti di forza nelle profondità della terra e negli abissi stellari. Potrà sembrare strano, ma proprio il terremoto dell’Aquila ha riaperto e riattivato il mistero delle immagini fino ai poli metafisici, irradiando nuovamente due discipline solo apparentemente distanti. La letteratura e la fisica nucleare. Dalla prima, emerge una coppia di immagini legate alle potenze ctonie: l’anonimato dei morti; l’archetipo terribile. Dalla seconda, l’ immagine dell’ invisibile, che arriva direttamente dalla sperimentazione scientifica.
Immagine 10: l’anonimato dei morti.
“Sebbene il tempo sia pervasivo, esso è anche un tempo anonimo. L’Abruzzo è fitto di luoghi senza nome, (..) in cui non sembra siano mai stati abitanti degni di memoria. Mi affascinano le grandi mura ciclopiche come a Pescina, costruita da popoli di cui è incerto anche il nome. L’anonimato dei morti occupa l’Abruzzo, ed è parte della pietas umile e ostinata di questa terra”. E il panorama è “un capolavoro costruito con grandi blocchi di silenzio e scialbato di solitudine” (G. Manganelli, La favola pitagorica).
Non c’è distanza maggiore tra “anonimato dei morti” e autoreferenzialità nichilista. Tra la visione epico-tragica e quella socio-pragmatica c’è un dislivello insuperabile. Eppure sono immagini coeve. Non è dunque la cronologia ad essere sotto accusa, ma il punto di vista dello sguardo. Un problema di latitudine del sapere. In questo senso il tema del lutto e della morte assumono direzioni divergenti, radicalmente opposte. L’autoreferenzialità nichilista metabolizza il dolore della perdita nella sfera privata e nelle celebrazioni rituali e mediatiche pubbliche. Una tacca sul calendario e una lapide alla memoria sono i segni riduttori del ricordo. Di tutt’altro timbro risuona, invece, “l’anonimato dei morti” in Manganelli. Un binomio dal sapore ovidiano che riassume una topografia metabolica da decifrare. In breve: questo intimo sentimento di ricordo, rispetto e venerazione esce dalle proprie sedi, dall’anima e dai sepolcri, per vagare nelle vene del sottosuolo, tra le “rocce, queste cose che hanno movimenti, spasmi e trasalimenti che durano millenni”. Solo in questo modo la durezza del dolore sotto le pressioni geologiche si trasforma in forza: nella visione redentrice della “ pietas, umile e ostinata di questa terra”. L’anonimato espande allora le individualità soggettive in una singolarità metafisica, trascendente. Il presupposto iniziale e teleologico di ogni aspirazione formante, spirituale o razionale che sia, affonda le proprie radici nella materia dura e nella grazia segreta di questa terra. Intrisa di tempo, silenzio e solitudine. Di anonimato.
Immagine 11: l’archetipo terribile.
“L’Abruzzo tende ad essere una gigantesca scena, un che di paradossale, forse unico in Italia al suo centro non ha una città, ma una montagna, una grande, bellissima, terribile montagna, il Gran Sasso. Non badate ai metri dell’altezza; il Gran Sasso è di schiatta araldica, montagna di gran razza, di quelle che colloquiano con gli dèi. L’Abruzzo accerchia la sua montagna; ma da questa collocazione deriva una vocazione centrifuga” (G.M.)
Se questi estratti appaiono frammenti letterari è solo perché rispecchiano il carattere diffidente e un po’ indolente del loro autore. In verità nascondono i codici spirituali dei principi formali, essenziali per un programma paesaggistico e costruttivo tutto ancora da pensare. Ne elenchiamo alcuni di natura squisitamente geometrica. 1- L’unità minima della scena: l’Abruzzo. 2- Al centro della scena: l’ immagine principale, la mole totemica della montagna. 3- L’asse verticale dell’ immagine: la dimensione metafisica. 4- Il centro dell’ immagine: il punto di convergenza di tutte le forze. Un dispositivo teatrale, semplice, austero, ma efficace, adatto a ripetersi ad ogni scala, ad ogni livello: semantico, simbolico, sintattico. Un delicato sistema di correlazioni tra sostanze e materie diverse. In ogni caso, al magnete del Gran Sasso, come alla forza di gravità, non sfugge nulla. Ne consegue che, il “rapporto intenso tra immagine locale e totale porta a indicare una qualità abruzzese”, alla “vocazione” di una “continuità dialettica”. E in questo senso il solido della montagna incorpora il solidus della solidarietà. La predisposizione morale, e la sua legge centripeta, è già inscritta nell’orografia del paesaggio. Ma poi, tutto quell’insieme di geometria-morfologia-geologia, deve esprimersi in un linguaggio. Nel linguaggio delle opere attraverso un’idea altamente astratta: la solidità. Una scabra e solenne qualità pervade le forme dal loro interno. Fino a quando essa giunge alla sua massima e tenue immobilità. Nelle facciate delle chiese. Effigi di pietra, squadrate, bidimensionali, piatte, silenziose, solitarie. L’apparire di una “compatta meditazione”.
Immagine 12: l’invisibile.
Dalla meditazione alla contemplazione. Nei laboratori sotterranei dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) del Gran Sasso, gli scienziati cercano di catturare una particella inafferrabile: il neutrino. La cui massa è talmente piccola da essere “evanescente” (B. Greene). Per questa sua inconsistenza subatomica, la particella invisibile attraversa agevolmente tutta la materia, compresi i nostri corpi. Indisturbata, viaggia nelle infinitudini spaziali, rimbalzando tra una sponda e l’altra dei campi elettromagnetici. La sua prerogativa, e da qui la sua importanza, è di essere “un’impronta digitale”, seppure ancora invisibile, delle leggi fondamentali dell’universo.
Ciò che però meraviglia nella fisica nucleare non dipende tanto, per noi, dal susseguirsi di nuove teorie più o meno ardite. Piuttosto dipende da un altro motivo. Ogni teoria per essere considerata valida, oltre alla sua dimostrazione matematica deve garantire la sua dimostrazione estetica. Deve essere visibile. Per questa ragione l’ invisibile, macro e micro, ha bisogno più che mai di una lunga contemplazione, prima di essere accompagnato nell’apparire del visibile. Ma ancora di più stupisce che la sperimentazione nucleare debba infilarsi sotto terra per le sue verifiche estetiche. Debba occultarsi per rivelare l’occulto. Sprofondare in una caverna nel centro del Gran Sasso. Sotto uno scudo spesso duemila metri di roccia dolomia (per difendersi, non solo, dalle radiazioni cosmiche). E lì infine costruire, in quella cavità di pietra, un grande occhio: tetragono e grigio; composto da migliaia di cubetti in piombo interfacciati da lastre sensibili, per essere colpiti da fasce di neutrini sparati dall’acceleratore nucleare del CERN di Ginevra. I quali attraversano indifferenti la calotta terrestre, ignari delle Alpi o degli Appennini. Ma se una cellula dell’ occhio viene intercettata dalla loro traiettoria, sulla lastra sensibile si imprime un alone geroglifico: la traccia del loro passaggio. Immagine di una presenza invisibile, di una matrice elementare dell’universo.
Il Gran Sasso: gran dio invisibile. Un imponente dispositivo ottico con al centro una camera oscura per catturare l’ immanifesto. Quella parte dell’universo sovrabbondante e sovrumana che ci sorprende e terrorizza, ma che ci riflette e ci affascina.
Parte II
Bagno Grande: trigonometria del nome.
Il sito; il primario; il secondario.
1- Il sito: la presenza.
Topografia, morfografia, crittografia.
1.1- Topografia. Costa pedemontana. Posizione panoramica privilegiata, non per esposizione, rivolta a nord, ma per ampiezza dello sguardo. Sotto, la valle, un gran lenzuolo aperto verso levante. Sul lato opposto, l’Aquila, in posizione di testa. Di fronte, Onna, tragico epicentro. Sullo sfondo, imponente, lo sbarramento “tibetano”del Gran Sasso.
1.2- Morfografia. Una linea dorsale sassosa, decisamente in discesa. Nel suo punto intermedio, a perno, la chiesa della Madonna del Buon Consiglio ruota e modifica le figure: a monte, impianto lineare; a valle, impianto radiale. L’orografia è teatrale per dislivelli, cinematografica per inquadrature. I prospetti dominano le piante. Il paesaggio domina la vista.
1.3- Crittografia. La tipologia dei danni, fisici e metafisici, richiede un intervento complessivo di “conservazione-ricostruzione”.
2- Il primario: il significato.
Norme tecnico-legislative; requisiti funzionali; assetto patrimoniale.
2.1- Norme tecnico-legislative. I livelli prestazionali - sicurezza, antisismicità, risparmio energetico - richiesti alle nuove costruzioni, impongono una seria riflessione progettuale quando devono essere applicati a edifici in centri storici minori (e perciò non “monumentali”) seriamente danneggiati. Senza una consapevole mediazione e meditazione theorico-progettuale, le norme tecnico-legislative diventano la causa finale e irreversibile della distruzione. Pertanto, la normativa, in generale, non può essere in nessun modo presupposto e fine del progetto, ma solo supporto.
2.2- Requisiti funzionali. La necessità, legittima, di prevedere spazi dedicati ad attività di servizio, private o collettive, civili o religiose, richiede una risposta progettuale in coerenza con: il significante (vedi sotto, e immagini 1-12) e le forme originarie d’impianto. In ogni caso, le difficoltà non stanno nella definizione dei contenuti (funzionali), ma piuttosto nella definizione dei contenitori (estetici). Infatti: i contenuti dipendono dal significato; i contenitori, dal significante. Ma non può esistere alcun contenuto senza contenitore; come nessun contenitore senza significante.
2.3- Assetto patrimoniale. La frammentazione della proprietà immobiliare, fondiaria ed edilizia, dovrebbe permettere la possibilità di compensazione e commutazione di superfici e volumi. Una condizione condivisa collettivamente e sostenuta politicamente. Premessa indispensabile per un dispositivo di agevolazioni giuridico-amministrative in dialettica reale, e non fittizia, con il progetto di conservazione e ricostruzione.
3- Il secondario: il significante.
Natura; storia; dramma; speranza.
3.1- La natura, attraverso il medio del paesaggio, riflette l’idea di infinito, nella duplice dimensione visibile-invisibile, distinto-indistinto.
3.2- La storia, attraverso il medio del luogo, riflette l’idea di eterno, ipostatizzando gli opposti forma-informe, unità-dissoluzione.
3.3- Il dramma, attraverso il medio dell’evento (il terremoto), riflette l’idea del tragico, nella dialettica collettività-singolarità.
3.4- La speranza, attraverso il medio del pathos, riflette l’idea del pudore, nell’agone dimenticanza-gratitudine.
Parte III
La forma
Nel traffico delle immagini tra dimensione noumenica e fenomenica, ovvero tra l’apparire dell’intelligibile e l’apparire del sensibile, emerge un duplice a priori della forma: “conservazione” dell’ esistente, “ricostruzione” dell’ essente. Più semplicemente, sebbene le immagini rifiutino ogni approssimazione linguistica o rappresentativa, possiamo considerare l’ essente tutto ciò che precede e sostiene l’ esistente. La sua invisibile impalcatura intima. Non c’è visibile senza invisibile, senza la potenza dell’ immagine significante (metafisica, simbolica, divina).
Ne consegue che la forma “reale” agisce su un duplice registro. A- quello della figura maggiore: la “ricostruzione” di Bagno grande, del luogo, del paesaggio, in rapporto con le categorie del significante. B- quello della figura minore: la “conservazione” puntuale e concreta di ciascun edificio, o ambiti d’intervento, all’interno di una gerarchia dialettica con la figura maggiore. Dove “figura” indica il medio tra immagine e forma, tra assenza-presenza, tra significante-significato. Mentre la coppia maggiore-minore indica esclusivamente una differenza di scala. Pertanto, la scala di pertinenza del progetto, non dipende per nulla da una casualità infondata o da una scelta arbitraria. Deriva, come ormai dimostrato, dai due fattori principali e correlativi posti fin dall’inizio: A- dall’evento del terremoto; B- dall’ambito del significante (immagini 1-12). Il primo determina la scala dimensionale; il secondo, la scala immateriale (spirituale, trascendentale, emozionale). Solo la loro summa costituisce l’ambito di riferimento “concreto”, “effettivo”, del progetto, che non può che generarsi partendo proprio da quegli estremi. Presenza-assenza. Ma poiché il tutto deve transitare dal mentale al manuale, i modelli (di gesso) diventano gli strumenti mediatori, e la scala geografica la prima soglia dello scambio. Da lì in poi inizia la serie delle successioni. I modelli, infatti, ritagliano il “reale” come un témenos, per infrangere la latenza delle immagini invisibili. In questo senso i modelli non hanno alcun scopo rappresentativo, ma propriamente rivelativo. Ogni porzione di paesaggio, come un fotogramma a scalare, deve essere elaborata (progettata e prodotta) con la massima “precisione” se si vuole sviluppare la relazione figura-sfondo. Ossia, quella relazione essenziale che permette allo sfondo delle immagini, al piano universale del significante, di chiarire, ossia, di illuminare la figura. Renderla sempre più trasparente, nitida, mantenendone la fisionomia nel suo avanzamento verso la presenza. In questo senso il fattore essenziale per i modelli è la precisione. In effetti, loro sono il filtro (della presenza: del luogo o del paesaggio) posto tra noi e lo sfondo del significante (dell’assenza), che è sempre in una lontananza indefinibile. Letteralmente incommensurabile. E poiché i vettori delle immagini provengono da quelle distanze, quello che noi riusciamo a vedere sulla superficie bianca dei modelli dipende direttamente da due presupposti. 1- dall’intensità dei vettori: ossia da quanta chiarezza noi abbiamo nei confronti del significante metafisico-simbolico-spirituale. 2- dalla massima precisione esecutiva dei modelli: una speciale lente d’ingrandimento rivolta al quel mondo. Solamente con i modelli, pura theoria-pratica, si realizza l’unità inscindibile tra mente-occhio-mano, prodromo della forma.
In questo senso le immagini vocazionali dell’Abruzzo, ritualizzate nella letteratura da Manganelli, emergono a rilievo. Teatralità, anonimato, solidità, astrazione, solennità, solitudine, silenzio: da valori universali a principi strutturali. Mentre la loro composizione, quasi per volontà arcaica, segue la geometria della solidarietà. Quell’intima simmetria di forze, centrifughe e centripete, affettivo-estetiche, scardinate dalla potenza distruttiva del terremoto.
La nuova forma di Bagno Grande nasce quindi da una causa materiale per un fine immateriale, per celebrare un rito delle grandi civiltà, ma dimenticato dalla cecità tecnica. La gratitudine: nei confronti dell’Abruzzo, dei predecessori, dei morti, delle vittime, dei sopravvissuti. Nei confronti del mistero della materia non meno che della vita. In questo senso va inteso il progetto di “conservazione” dell’esistente e di “ricostruzione” dell’essente: il punto di massima congiunzione del “reale”; di compenetrazione del fisico nel metafisico.
Planimetricamente. Dalla configurazione generale dell’impianto di Bagno Grande si genera per vibrazione la nuova forma, ruotando sul perno fisso della chiesa della Madonna del Buon Consiglio: due ampi terrazzamenti uniti da un unico bordo, da un perimetro percorribile. Altimetricamente. Il nuovo orizzonte intercetta il punto intermedio della pendenza che caratterizza il borgo antico. Un “blocco” compatto, nonostante i due corpi, fuoriesce per estrusione dal suolo accidentato della costa. La solidità della figura, resa ancora più austera dall’altezza dei fianchi, introduce una terna di temi. 1- la scena, in rapporto a Bagno Grande e al più vasto paesaggio frontale. 2- l’orizzonte, il principio dimenticato della stabilità e dell’equilibrio. 3- la misura, rende visibile le forze e le pressioni interne dell’orografia del luogo e del borgo. Comunque, in generale, la nuova figura maggiore agisce quasi per contraccolpo naturale al fenomeno distruttivo del terremoto, e per contraccolpo culturale ed al fenomeno dissolutivo del sapere contemporaneo.
Molto ci sarebbe da dire anche per l’ambito funzionale. Essendo però un argomento solo accennato ma non sviluppato per esigenze temporali, rimane momentaneamente sospeso. In ogni caso, gli spazi ed i volumi interni sono tali da garantire una seria risposta ad ogni congruente necessità.
Analogamente per la figura minore. L’intervento di recupero conservativo dei singoli edifici danneggiati richiederebbe un’articolazione della casistica troppo complessa per offrire una risposta progettuale adeguata ai due livelli: significato-significante. Pertanto, si introduce appena il principio. Ogni figura di progetto opera, in relazione con la figura maggiore, per condensazione: arretrandosi rispetto al tracciato delle murature esistenti crea una sospensione. Un vuoto “pneumatico”, in senso greco e in senso tecnico. In questo modo, distinguendo il vecchio dal nuovo, si garantisce al vecchio la conservazione della sua fisionomia (estetica) e della sua natura (muri a gravità e freddi), potendo applicare tecnologie statiche non invasive (bendaggi di fibre di carbonio). Il nuovo è invece gravato dalla responsabilità di rispondere a tutti i requisiti normativi, avendo però nella propria struttura formale la congruenza della soluzione.
Abituati come siamo al predominio della presenza consideriamo “reale” solo ciò che è materiale. Dimenticata la res -come la veritas - ricordiamo che l’universo del “reale” si compone di due classi irriducibili di immagini: quelle che provengono dal mondo del visibile, e quelle che sopraggiungono dal mondo dell’ invisibile. Le prime, riducendo la forma alla coercizione della vicinanza, al dominabile, lo divorano; le seconde, riaprendo la forma alla libertà della distanza, all’indominabile, lo nutrono. Ma affinché l’ immagine metafisica, nonostante l’aggettivo rivesta la parola di un fastidioso imbarazzo, si liberi dallo schiacciamento e dallo schieramento della cultura contemporanea, deve provocare un terremoto. Essere sisma e scisma: squarciare la crosta dell’occultamento; separarsi dal sapere dell’annullamento.
Non c’è alcuna conclusione, se non quella di ricominciare. Ma su tutto il progetto aleggia ora un’ immagine parola che si vorrebbe pronunciare se non fosse così arcaica e ridondante: altare. Per una duplice ratio filologica. Dal latino alo-alere, alimentare, nutrire, far crescere. Dall’arabo al-tàir, che vola come l’aquila.