La Deposizione dello Sguardo
Laboratorio di Progettazione Architettonica A.A. 2003-2004 - Università Iuav Di Venezia.
Prima di introdurre i temi del corso è necessario sviluppare una breve riflessione sul senso del titolo, che vorrei subito collocare all'interno dell'orizzonte della cultura europea. Venezia, Italia, Europa. La cornice culturale europea è significativa, proprio perchè in essa si sviluppa la cultura dominante nichilista. Da questo punto di vista è utile il riferimento all’ultimo libro di Giovanni Reale, “Radici culturali e spirituali dell'Europa”. Un’opera utile a direzionare il nostro pensiero e, di conseguenza, il nostro modo di agire. Perché tutto questo? Secondo Reale ci sono tre aspetti particolari del pensiero europeo. Il primo, riguarda il pensiero greco, il logos , la logica; il secondo, il pensiero cristiano, il pensiero dell'incarnazione che oscilla tra pietà e grazia; il terzo, il pensiero della scienza e della tecnica, ovvero della potenza. Si può così tracciare la figura che profila, in qualche modo, il senso della cultura europea: la “leva”. Nel fulcro si concentra il pensiero greco; il “braccio” è determinato dal pensiero cristiano; la dynamis , la forza, dalla potenza della scienza e della tecnica. Oggi, però, questa figura si è infranta. Le loro relazioni si sono scardinate. L’asse ha perso l’appoggio, e la potenza libera da ogni vincolo vaga autonomamente: “ci porta in giro”. E proprio in questo senso va posta nuovamente la domanda “su” Venezia.
Quasi un’invocazione: Veni etiam , “vieni ancora”. Ma che cosa dovrebbe ancora venire? Forse quel senso che le parole hanno ormai perso? Tutti noi sappiamo cosa vuol dire insegnare. Ma sono concetti talmente vasti ed antichi che ci arrivano ormai logori, sfiancati. Per Heidegger, insegnare è portare il saper fare e il non saper fare a corrispondere. Dunque? Insegnare è molto più difficile che imparare. Nell’insegnare c'è sempre una porzione che compete all’imparare, anche da parte dell’insegnante. Perciò, a fianco della parola “insegnamento” appare “apprendimento”. Ma anche “imparare” si presenta ugualmente con una certa indeterminatezza. Nietzsche ci offre una definizione straordinaria: imparare significa costruire i propri doni. Noi non accumuleremmo nozioni ma saremmo impegnati a costruire i doni. Quali? I doni che l’Architettura ci offre.
E di nuovo. Architettura, altra parola conosciutissima, ma misteriosa ed altrettanto labile. In essa risuona la contraddizione originaria: arché e téchne. La tecnica si costruisce sui principi primi i quali, a loro volta, sono costantemente “scossi” dal gioco della necessità, del caso.
Ananke e tyche.
Insegnamento e architettura, sono dunque due parole attraversate dallo stesso conflitto, da un’unica incessante lotta. Il senso delle forme non si da mai pacificamente, soprattutto per una disciplina - architettura - che non è scienza e nemmeno semplicemente una tecnica. Architettura è piuttosto una sapienza che ha bisogno della coscienza: il luogo dove si radunano le scienze (e le tecniche). Rimane poi scoperta un’altra coppia di termini, presenti nel sottotitolo: didattica e ricerca. Anche se in “didattica” risuona nuovamente il significato greco di insegnare, il termine possiede un timbro particolare, così come ci viene ricordato dal filosofo roveretano Antonio Rosmini: didattica è, appunto, quel metodo che ci consente di triturare i grumi del sapere per potere riconoscere finemente, uno ad uno, le particelle delle idee e dei concetti in modo da trasmettere tutta la materia del sapere finemente preparata, ordinata per il suo più chiaro apprendimento. Dunque la chiarezza. Infine, “ricerca”: parola che appare come nucleo centrale di tutta la cultura europea, la sua forma mentis teorica. Europa, appunto. Un nome che contiene nello stesso tempo il suffisso “eu”, indice di qualcosa di felice, di buono, anche se alla sua origine sta un rapimento, che è pur sempre qualcosa in opposizione a quella felicità che traluce nel nome. Ricercare vuol dire, allora, non potere mai stare sicuri, mai essere certi di quel che si sa. Così ritorna il pensiero di Heidegger sull’insegnamento, nel quale si annida l’ammonimento alla relazione tra il saper fare e il non saper fare.
In questa cornice, dentro questo orizzonte si inscrive il senso del corso. Bisogna però anche aggiungere che noi percepiamo la cultura europea in un modo abbastanza vecchio. Un aggettivo, questo, che qualifica subito un modo di vedere. Ovvero, un abbassamento o indebolimento della vista. Siamo ammalati di cecità: il mal bianco di Saramago. Essendo invecchiato il pensiero (perchè scardinato), esso non scorge più la forma mentis europea, che sarebbe un saper vedere nuovamente i tre fulcri, i tre grandi cardini: filosofia greca, cristianesimo, tecnica. E siccome l’architettura, da sempre, è coinvolta nel campo estetico (e poi etico e logico) ha ancora più urgenza, rispetto ad altre discipline, di riprendere in mano - sott’occhio - questo tipo di conoscenza, che si traduce in: capacità del saper vedere. Proprio in relazione a questo problema, vorrei distinguere adesso i due momenti del corso che gravitano attorno alle due parole chiave: didattica e ricerca. In architettura, anche se siamo al primo anno, non si dovrebbe mai separare la “ricerca” dalla disciplina “architettura”. E se la didattica sembra essere più urgente, almeno al primo anno, ma non più importante, non lo è da meno la ricerca, che dovrebbe essere sempre presente, anche per quel poco, nella didattica.
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La didattica, nel nostro caso, ha avuto come tema il ripensamento degli spazi interni di diciassette chiese veneziane. Non il ripensamento di tutto il volume interno, solo di una parte, quella superiore, relativa alle coperture, alle volte. Infatti, la ricchezza delle chiese veneziane deriva da pochi archetipi formali: l’intersezione tra cubo, cilindro e cupola. Figure che mettono insieme principi diversi, oppositivi: unità e movimento, gerarchia e innovazione, legge formale e libertà espressiva. Ovvero, la cupola, metafora dell'occhio. Occhio-sfera, cavità di un mondo mineralizzato che (ci) “vede”. L'anno precedente, il tema del corso verteva sulla possibile relazione tra immagine “fisica” e immagine “simbolica” di Venezia. Lo studio del “pavimento della Basilica di S. Marco” ha favorito la scoperta di tale relazione, approdando all’inaspettata immagine della “sindone di pietra”.
Quest'anno, in continuità con il programma precedentemente impostato, lo studio si è spostato dal tema dell'immagine a quella dello sguardo. Quali occhi possono ancora guardare le immagini di quel simbolo? Le volte delle diciassette chiese sono appunto questi “occhi”. Per fare questo, la didattica ha impostato un metodo molto semplice. Primo, offrire agli studenti un materiale già straordinario di per sé. Secondo, lo studente doveva innanzitutto disegnare. Terzo, osservare e interpretare. Disegnare perché prima di tutto doveva iniziare a possedere il senso dello spazio interno della chiesa. Poi, doveva andare sul posto e osservare quali sono i segni fondamentali che avrebbe dovuto selezionare, e dunque, mantenere per il proprio lavoro. Infine, interpretare i segni per l’impostazione dei modelli, in quanto ogni modello è un’interpretazione della condizione reale della chiesa. In questo modo lo studente ha dovuto realizzare prima i disegni conoscitivi. Poi predisporre i disegni per la costruzione dei negativi dello spazio interno. Infine, costruire le casseformi per poter contenere il materiale liquido: il gesso. Tutto questo dal punto di vista didattico ha portato anche ad un’altra esperienza. Quella, attraverso la costruzione dei modelli, di un cantiere in vitro. Permettere allo studente al primo anno di anticipare l’esperienza di un vero cantiere: metodo, organizzazione, previsione e precisione costruttiva. Ma la didattica possedeva anche un altro risvolto, che coinvolge la temporalità: preparazione, attesa, sorpresa. Tre tempi del lavoro ai quali è legato il risultato dell’opera: successo o fallimento. Perché si poteva anche fallire. Ma il rischio, anche questa volta, è stato premiato dal materiale. Emerge, dunque, il tempo della vigilia, nel quale lo studente vive con ansia il risultato dell’opera. Ma sarà l’opera stessa, alla fine, a rispondere. In che modo? Con la forza del suo fascino. L’opera restituisce con il pathos della forma la risposta alle fatiche, alla dedizione, alle aspettative profuse dallo studente al proprio lavoro. Ultima questione: la ricerca. Ovvero, sul senso del titolo: La deposizione dello sguardo. Deposizione è una parola molto nobile. Ma è anche una sfida diretta ad altre due parole, oggi molto usate se non abusate del linguaggio architettonico contemporaneo: decomposizione e decostruzione. Le quali hanno per sfondo il negativo. Diversamente, “deposizione” apre ad un diverso modo di pensare, prima, e di comporre, poi. Fa riferimento a qualcosa che aveva dignità già prima e questa dignità dovrebbe essere mantenuta. Basta ricordare la grande arte pittorica o scultorea.
“Deposizione”: comporre ancora con grande pietà, con grande senso di grazia. Nel nostro caso, al di là delle metafore, ci si è rivolti nuovamente proprio a questi grandi “occhi” di pietra, sulle cui volte si riflettono le immagini delle molte Venezie, da quella fisica a quella trascendente. “Occhi” vigili che ci guardano costantemente ma allo stesso tempo sorreggono proprio con il loro “sguardo” l’immagine-simbolo: “la sindone di pietra”. Questi occhi rovesciati (di 180 gradi) sono ora di fronte a noi, in attesa che lo sguardo diventi “cosa”: un oggetto al quale prestare tutta la nostra dedizione, tutta la nostra cura. I modelli si trasformano ora in culle: in esse riposano le immagini dello sguardo.
Massimo Donà Quanto è stato detto prima, ci costringe a tornare a pensare alle cose e, credo che la questione dell’architettura sia, non solo evidentemente, ma innanzitutto, la questione del rapporto ineludibile tra arché, tra Inizio e Fare. Ogni fare è in rapporto con qualcosa che risuona nella parola arché. Quindi cosa vuol dire tutto ciò? Beh, ogni fare, ma principalmente nel fare architettonico, credo, si è in rapporto con l' arché, come in ogni forma del fare, ma questo rapporto è ciò di cui si fa concretamente, ma anche empiricamente, esperienza. È un rapporto che è l’oggetto stesso del fare e, l’oggetto di questo fare è proprio questo rapporto. Ma perché? Credo, si possa davvero dire che ogni nostro gesto, ogni nostra parola, ogni nostro significato, presuppone qualcosa. Chiamiamoli prìncipi, in modo chiaro, assiomi, convinzioni di fondo, fedi. Ogni nostro significare, ogni nostro fare, presuppone qualcosa. Ma il punto è come ci si rapporta a questo pre-supposto. Anche il fare più semplice, più banale, non sarebbe tale se non sulla base di certi presupposti che lo spiegano. Rispetto a questo presupposto che cosa possiamo fare? Possiamo semplicemente ignorarlo, limitarci ad assecondarlo, quindi fare come di fatto facciamo, o possiamo, appunto, fare di questo stesso nostro fare che potrebbe anche ignorare il presupposto, fare del nostro fare una interrogazione costante al suo presupposto. Sembrano discorsi un pò astratti, ma credo, invece, che rispetto a quanto esposto prima, di questo si tratti.
Cosa ha fatto con i propri studenti Rizzi? L’ha detto bene prima, con riferimenti molto forti. Ha fatto qualcosa che significa comprendere come non si possa fare davvero se non ponendoci di fronte “quella cosa”, facendola diventare un “oggetto”. Ma che cosa? Quel Principio da cui siamo visti: gli occhi che ci guardano, che ci custodiscono. Ma cosa è stato fatto, dunque? Un gesto assolutamente impensabile, provocatorio. Ha messo di fronte ciò che sta prima, ciò che ci costituisce come nostra condizione di possibilità: “l’occhio di Dio”, l’occhio del cielo che ci governa entro cui abitiamo prima di abitare ogni spazio determinato. E quindi il suo fare, mi è parso come una sorta di invito provocatorio, a guardare in faccia ciò che spesso non guardiamo direttamente, ma che assecondiamo inconsapevolmente. Se questo presupposto, l' arché , “l’occhio di Dio”, è ciò che ci fa stare, non significa che noi siamo costretti a d assecondare semplicemente o passivamente questo presupposto. Nostro compito è anzitutto quello di interrogarlo il presupposto, e quindi operare una sorta di scepsi. L’atteggiamento fondamentale di tutta la filosofia. Attenzione, però, perché la filosofia greca è il luogo del kosmos, del logos, del destino. Ma la filosofia greca è anche il luogo in cui questo kosmos nasce dalla famosa azione socratica che non è altro che una messa in questione di ogni presupposto. Il kosmos greco nasce dalla continua messa in questione del presupposto. E non possiamo nemmeno dimenticare il Cristianesimo, altra grande radice dell'Europa.
Paradossalmente, vedo nell'operazione di Rizzi una operazione greca. Il presupposto viene posto di fronte e viene interrogato: chi sei? È la domanda all’Inizio. L'altra operazione (in riferimento al corso del Prof. Trame), apparentemente molto più laica, è più legata al “cristianesimo”, in base al quale si opera a partire da un presupposto non interrogato. La fede è questo. E c'è anche una rivelazione che va presa così com'è, e in quanto non interrogata produce un processo infinito, un’apertura mai definibile ultimativamente da parte nostra. Il processo appunto dell’Ulisse dantesco, rappresenta il destino dell’occidente, e quindi scopriamo che la tecnica, la potenza di cui si parlava prima, è intimamente legata al presupposto cristiano. Attenzione, la tecnica è però anche un presupposto assolutamente cristiano: la possibilità di rompere ogni limite, superare ogni soglia, ma - attenzione - a partire dalla non interrogazione del presupposto. La storia cristiana è una storia lineare che procede all'infinito. La storia ciclica greca è la storia che nasce dalla interrogazione costante del presupposto. Fare l’architetto non può prescindere dalla consapevolezza che siamo in un luogo e che forse quel luogo già contiene quell’architettura che noi dovremo portare alla luce. Ma cos'è il luogo? Tante cose sono luogo. Credo innanzitutto che il luogo è un simbolo concreto, empirico - non teologico - di un presupposto da cui non possiamo prescindere. Qualcosa rispetto a cui non sono libero o, in relazione al quale potrà essere manifestata al massimo livello possibilmente la mia libertà, ma a partire da quel presupposto che non posso fingere non preesista. Non posso interrogare una sorta di delirio infinito. Devo invece fare i conti a partire da quello, solamente da quello, affinché la mia libertà sia determinata in modo ingiudicabile, ineludibile, e potrà quindi procedere all’infinito e infinite potranno essere le sue traduzioni, le sue determinazioni, le sue riscritture. Ecco se questo è quel quadro, credo allora sia vero quello di cui avete fatto esperienza. Mi sembra che quello che ho visto sia un'operazione non solo architettonica, di conoscenza di dati, di elementi per altro essenziali, ma sia un’esperienza di pensiero. Ripeto, come dicevo all’inizio, l’imprescindibilità del confronto con questa dimensione della riflessione del pensiero senza il quale, spesso, il fare rischia di diventare un fare semplicemente idiota.
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Venezia: insegnare architettura, didattica ricerca.
Convegno organizzato dal Prof. Umberto Trame nella sede di S. Marta, il 24 febbraio 2004, per esporre e discutere i risultati del lavoro degli studenti relativi ai Laboratori di progettazione 1° anno, Prof. Trame e Prof. Rizzi. Inoltre parteciparono alla discussione: Prof. Gianni Fabbri, Dott.ssa Gabriella Belli, Prof. Massimo Donà, Prof. Giovanni Chiaramonte, Prof. Oswald Zöggeler.