Il vuoto lasciato dall’industria appare ora una visione. Coincide con quel luogo del possibile che offrirebbe vie inattese se l’individuo tornasse a posizionarsi al centro delle pratiche del fare.
La pandorica deviazione insita nella fascinazione per la tecnica ha sostenuto, poi sovrastato l’individuo che l’ha perseguita. Il distacco è avvenuto presto, appena levato il coperchio.
Nella figura di Efesto, divino maestro storpio, è concentrata l’ambivalenza del potere della téchne. Impastando terra, acqua e fuoco ha plasmato il male di cui tutti nel cuore si compiacciono. Le liberate potenzialità di azione sulla realtà condensate nelle contraddizioni della tecnica: la lama che è ausilio per l’intagliatore è anche il coltello per uccidere.
Il ritorno alla consapevolezza del processo del fare è il solo atto politico di riappropriazione di un qualche futuro.
Senza, s’è visto.
Incagliati nella deriva della modernità, occorre ricollocare gli occhi, reinterpretare le mani, ricalzare il cervello.
La processualità del fare ed il risultato non possono che coincidere. Mente, mani, occhi impegnati in un rituale antico. Una fornace. Un laboratorio primordiale. Un rifugio contento di sperimentazione. La realizzazione simbolica di una nuova attitudine del fare, in cui il rito sfocia in un’immagine archetipa.
Senza nostalgia, solo facendo. Questa volta terra, acqua e fuoco. La prossima saranno universi interconnessi, soggettività collettive, autoproduzioni di nature attrezzate, ecologie multiformi, paesaggi collaborativi.