Estratto dalla relazione di Tesi.
PROLOGO.
Le pagine che seguono narrano le vicende di due soggetti che da circa trecento anni convivono pacificamente di spalle: non si sono mai guardati né parlati. Eppure l’uno è figlio dell’altro, sono quasi la stessa cosa: uno è fatto di roccia che trasuda pece, di luce tagliente, di acqua che, libera, ruscella riecheggiando mentre sgorga; l’altro è di pietra, squadrata e posta pazientemente in opera da disperate, coraggiose mani. Entrambi sono figli dell’uomo. La città e la cava di pietra: una sopra l’altra.
Per edificare Ragusa la pietra venne cavata dalle viscere della vallata per essere posta sopra di essa: la città galleggia sul vuoto, ignorando le sue fondamenta d’aria.
Questa è la vicenda di due sconosciuti che dopo secoli di silenzio ricominciano a dialogare e nonostante parlino due lingue diverse, dicono le stesse cose e si capiscono: monologo di due città.
MONOLOGHI
L’approfondimento storico, morfologico e tipologico della città (o delle due città) è il presupposto indispensabile per la sua comprensione e per la sua sintesi.
Il compendio di Ragusa potrebbe essere letto in questo modo: un colle squadrato da una logica regola settecentesca, una valle attraversata da due propaggini della scacchiera e da una splendida eccezione ad essa, ovvero il primo ponte che la attraversa. Un secondo colle poi, appaiato al primo, in cui echi settecenteschi si intrecciano a nuove tracce figlie del Regime; tra queste una piazza, delimitata da una porzione di trapezio e da un’esedra, è la chiave del nuovo impianto e impone un nuovo asse.
Ad oriente, svincolato dalla nuova composizione, l’antico intreccio medievale e barocco. Agile e sinuoso, il binario ferroviario si distende tra queste tre masse, le solca, le aggira, le trapassa. Ponte Vecchio, l’eccezione alla regolarità maglia urbana del Patro, e il nuovo asse dettato dalla piazza a esedra, via Pennavaria poi via Marsala, saranno la bussola del progetto. Essi individuano tre punti di azione: l’incrocio tra l’asse della piazza e il binario della ferrovia, il raccordo tra la direzione del ponte e cava Gonfalone, l’intersezione tra il ponte e vallata S. Domenica.
MISURE
Un’ascissa e un’ordinata, l’asse viario e la linea ferroviaria. Le gerarchie precisate nell’analisi individuano questo primo punto come uno dei tre cardini che aprono altrettante porte tra le due città.
Il ruolo: un percorso, uno strumento di misura, di confronto e riscoperta delle due città. La funzione: una delle fermate della futura metropolitana leggera, la prima (o l’ultima a seconda del senso di marcia) della città traspontina. La genesi del progetto sta nell’adesione senza compromessi a questi due propositi. Conseguentemente l’obiettivo fondamentale è quello di collegare in maniera più comoda e veloce due punti posti ad una differenza di quota di circa trentadue metri, accostando il percorso che ne risulta al tracciato ferroviario esistente.
Il sistema di riferimento non può che essere individuato dalla direzione del binario e dalla relativa ortogonale, imponendo un deciso e brusco disassamento rispetto all’asse viario. Il resto lo impongono la logica e la necessità, ovvero tre percorsi rettilinei di cui due orizzontali relativamente perpendicolari e uno verticale, con una sezione trasversale costante, equivalente ad un quadrato di nove metri di lato. La forma finale è l’estrema sintesi tra morfologia, tecnica e funzionamento, al punto che non esiste elemento proposto dall’immagine finale che non risulti essere indispensabile. Il motivo per cui l’organismo poggia solamente in due punti è sempre da ricercare nell’ambito di una ricerca strutturale, che trova sufficiente risposta nelle due ridotte superfici di appoggio: il territorio è toccato con due dita.
È sufficiente giungere sulla soglia di accesso per essere inghiottiti dalla profondissima prospettiva del primo percorso, una distanza nuova, una dimensione diversa rispetto a quella quotidiana della città. Il rapido e diretto collegamento verticale offerto da tre elevatori accompagnati da una scala è il traguardo da raggiungere e si trova a circa ottanta metri dal viaggiatore. Chi percorre questa distanza, scopre nuovi e infiniti punti di osservazione della città dalla quale proviene, grazie al lungo taglio orizzontale che svela la struttura del ponte. Questo è posto ad un’altezza dal piano di calpestio quel tanto perché lo sguardo del viaggiatore possa percepire il paesaggio circostante come opera d’arte e permette di osservare da posizioni sconosciute e singolari lo strano binomio delle due Ragusa: quella nuova, moderna, disegnata nel verso della geometrizzazione dello spazio costruito, dal suo dilatarsi ritmato e quella vecchia, arroccata sul suo piccolo colle, racchiusa nel suo guscio venato da, vanedde e curtigghi.
L’occhio del viaggiatore frettoloso non baderà a tutto ciò, ma inseguirà la fuga della sua prospettiva con lo sguardo fisso davanti a sé fino a che non sarà giunto allo snodo nel quale il percorso muta da orizzontale a verticale. Un diaframma separa il percorso orizzontale da tale snodo, dove la luce illumina dall’alto il vuoto che sovrasta il binario. Le scale che affiancano gli elevatori sono lo strumento che permette di apprezzare pienamente la verticalità di questo spazio di collegamento. La lenta discesa è sempre affiancata dal vuoto, mai dal pieno. La luce zenitale illumina questo vuoto mentre il taglio lungo la parete meridionale è l’asse delle ordinate di un nuovo sistema di riferimento paesaggistico.
Terminata la discesa, a sinistra, si distende il secondo percorso orizzontale, l’affascinante prospettiva geometrica che inquadra il convoglio e la banchina di accesso. Quello che trentadue metri più in alto era il lungo corridoio di accesso pedonale, adesso diventa il tunnel nel quale il treno entra, si ferma e riparte.
L’architettura non penetra il paesaggio, non scava nuove geometrie, ma semplicemente si adagia su esso. L’evento architettonico diviene alieno alla morfologia del luogo, su esso trova solo il necessario supporto. Questo nuovo soggetto architettonico può essere idealmente concepito quale quarto ponte di Ragusa, il primo che la ricollega alle vallate; si tratta di un imponente sistema in cui da un lato la grande trave reticolare, che internamente diventa tunnel pedonale, poggia direttamente sul suolo urbano. Le lastre metalliche, che lo rivestono impeccabilmente, sottolineano il modulo geometrico e strutturale che genera il profilo e l’atemporalità classica espressa dalla forma pura proponendo l’immagine di un soggetto architettonico ateo e imperturbabile.
Il risultato di questo processo progettuale è un fatto d’aria, leggero e assoluto nella sua forma priva di incertezze; nuova unità di misura che con la propria presenza colma, per la prima volta, la distanza verticale tra la città e la valle.
SEGRETI
Misconoscenza. Se avessimo a disposizione una sola ultima parola per descrivere in estrema sintesi la relazione che attualmente intercorre tra Ragusa e le proprie latomie, questa sarebbe la più idonea. Chi abita la città ignora le cave sotterranee, non le conosce o, se le conosce, ne parla come qualcosa di alieno e lontano, un mito banale e lapalissiano.
Le latomie sono sotto gli occhi di tutti, alla luce del sole. Quelle di cava S. Domenica si vedono dai ponti; quelle di cava Gonfalone si avvistano da via Risorgimento, strada che ogni ragusano percorre almeno una volta a settimana, il sabato sera, per andare a Ragusa Ibla. I più piccoli le chiamano grotte e schiacciano l’indice sul finestrino, ficcandolo nella bocca della caverna; i più grandi annuiscono; qualcuno tra i meno giovani pensa alla salàta4 con i compagni di classe, quaranta e più anni fa, trascorsa proprio in quei luoghi.
L’asse individuato da Ponte Vecchio, idealmente prolungato, risulta tangente alla concava estremità di vallata Gonfalone. Questa conclusione della vallata non è naturale poiché, nel dopoguerra, un grande terrapieno sul quale oggi sorgono numerosi edifici, ne ha progressivamente anticipato il termine naturale interrando persino alcune latomie. Non esiste nulla che serbi memoria di tale operazione, dato che il terrapieno termina con un anonimo pendio erboso approssimativamente semicircolare, che si raccorda ai due versanti della cava.
Il ruolo: un monumento alla latomia, indelebile cicatrice del passaggio dell’uomo. La funzione: l’accesso alla vallata ed in particolare alle eccezionali cave di pietra che la contornano. Il terrapieno latente viene dichiarato e il suo margine diventa uno strapiombo sulla vallata. L’asse della composizione risulta esaltato da quest’ultimo elemento che ad esso si allinea; è così che prende forma un nuovo luogo, una sorta di piazza, uno slargo. Generato il nuovo ambito, ecco l’evento: un portale, metallico, alieno e improbabile, le cui geometrie, implacabili ed eterne, ricordano quelle della stazione del metrò di superficie. Posto sul ciglio dello spiazzo, muto, inquadra il paesaggio e le morbide curve che modellano l’orizzonte dell’altopiano sono ritagliate entro spigoli rigorosi e netti. Questa veduta è quotidiana, consueta e familiare al ragusano e inquadrarla significa rimuovere la patina di ordinaria banalità che attualmente rischia di rivestirla.
Nonostante ciò il vero obiettivo non è solo inquadrare il bel paesaggio, operazione di per sé lecita come, ad esempio, nell’analogo progetto di Francesco Venezia per una piazza al Battery Park di New York; il ritaglio di una porzione di un panorama non esclusivo, ha il compito fondamentale di conquistare finalmente la giusta considerazione del passante e avvertirlo che c’è dell’altro rispetto a ciò che egli ha sempre guardato e che adesso osserva quasi come per la prima volta. Telaio, riquadro, ammonimento, suggerimento e infine copertura: non si tratta solo di una cornice.
Avvicinandosi ad esso il visitatore scorge man mano l’intaglio lungo e stretto situato proprio sotto lo strano e attraente oggetto: un vuoto sotto un pieno, la quintessenza della latomia. All’interno di tale geometria si sviluppa la lunga scala di pietra che conduce alla base della fessura, trenta metri più in basso. Nel percorrere le prime sei rampe, il visitatore è accompagnato da quel paesaggio che il portale, ora sopra di lui, inquadrava con tanta precisione. Alla sua destra il prospetto è aperto sulla vallata e dichiara ad essa il nuovo accesso. Ciò che dalla città appariva misterioso ed estraneo, osservato dalla cava si svela in tutta la sua semplicità. Nel frattempo, attorno al visitatore lo spazio è mutato, dato che in un istante è stato completamente isolato dalla città, dai suoi rumori e dalle sue proporzioni, per essere condotto attraverso un taglio stretto, profondo, immerso nel paesaggio naturale della valle. È questa la prima trasformazione dello spazio.
Chi percorre la scala guarderà spesso verso il basso, alla base di essa, il suo traguardo. Tuttavia giunto a metà, dove la scala inverte la sua direzione e la seconda parte di essa si affianca alla prima, troverà a sinistra una porta che conduce ad un luogo imprevisto. Si tratta di una stanza rettangolare dall’accentuato sviluppo longitudinale, perpendicolare al percorso che ad essa ci ha condotti. La lunga parete, posta di fronte all’accesso, è inclinata e su di essa scivola la luce che proviene dall’ampia feritoia in alto, lunga quanto la stanza stessa, ovvero quanto lo scavo. Il soffitto è anch’esso inclinato ed è alto dodici metri nel punto più alto e tre in quello più basso, vale a dire dove si trova il visitatore al momento del suo arrivo. La luce ora netta e tagliente, ora morbida e sinuosa, lo spazio vuoto e irregolare, la pietra che riveste le pareti, l’eco che insegue ogni suono prodotto, sono gli elementi che rievocano lo spazio delle latomie ma, a differenza di esse, qui la razionalità della geometria detta ogni grandezza, disciplinando lo spazio con proporzioni e allineamenti. La qualità spaziale ricercata è pienamente espressa dall’allestimento della mostra degli Etruschi realizzato da Francesco Venezia.
L’inatteso spazio ipogeo, dotato altresì di sevizi igienici e di un piccolo deposito, può essere utile alla comunità per esposizioni temporanee, allestimenti, performance di vario genere, conferenze, piccoli concerti e qualunque altra attività che abbia bisogno di uno spazio protetto nel quale svolgersi. L’accessibilità ad esso è garantita anche dai due elevatori posti all’interno di uno dei piedritti del portale, che giungono poi fino alla base dell’incavo (l’altro contiene una scala di servizio).
Procedendo lungo la scalinata di accesso, si giunge finalmente alla base del taglio. Il paesaggio non è più visibile perché, sebbene ci troviamo ancora in un ambiente aperto, il percorso sotterraneo è già iniziato. Bisogna attraversare longitudinalmente una terza volta questo spazio alto e stretto, prima di arrivare sulla soglia del breve percorso completamente ipogeo che si sviluppa sul lato destro: un tunnel lungo venti metri dalla sezione costante di sei metri per lato, in fondo, la luce. La seconda trasformazione dello spazio.
Infine la vera scoperta: la latomia, lo spazio definitivamente trasformato.
RIFLESSI
“Il viadotto in muratura a semplice ordine di archi sovrapposti denominato Cappuccini, che sorpassa un burrone scorrente nella Città di Ragusa, costituisce l’inizio della strada provinciale che conduce alla stazione ferroviaria di questo Capoluogo […].Dai dati sovraesposti risulta evidente che la larghezza del manufatto è assolutamente insufficiente a soddisfare le esigenze del traffico moderno sia dei veicoli che dei pedoni, per cui si è ravvisata la necessità di studiare un adeguato ampliamento di esso anche in relazione al traffico, presumibilmente avvenire, o la costruzione di una nuova arteria che unisca la Città vecchia a quella nuova, alla stazione ferroviaria e alle rotabili esterne.”
Nel 1929 cava S. Domenica era considerata semplicemente un burrone, uno dei tanti che cirondano la città. Tale era la definizione dell’’Ingegnere Luigi Rizzo, capo dell’Ufficio Tecnico provinciale, nella relazione tecnica che esaminava il problema dell’espansione traspontina durante il Ventennio. Ragusa al tempo era solo una prua che solcava le due vallate S. Domenica e S. Leonardo: i margini della città erano evidenti. Il vecchio ponte dei padri Cappuccini era insufficiente al traffico urbano poiché Ragusa era da poco capoluogo di provincia e voleva definitivamente espandersi, scavalcando in modo diretto e agevole la vallata. La città ha superato l’ostacolo e sull’onda lunga di questa dilatazione non si è più fermata. Il nucleo settecentesco aveva un preciso rapporto con la cava dato che il margine era il fianco produttivo della centro abitato, oltre che il giardino: i terrazzamenti addomesticavano i fianchi selvaggi del dirupo e l’abbondanza d’acqua li rendeva ideali per l’orticoltura. A ciò si aggiungono le latomie, quelle più antiche.
Scavalcato il burrone, la città nuova volge ad esso le spalle. Il fianco meridionale è impercorribile lungo il suo sviluppo e gli edifici si addossano ad esso, quasi come se un tempo questa valle fosse stata piena e un evento indescrivibile avesse fatto sprofondare un pezzo di città, lasciando mutilato il tessuto urbano. Baricentro geometrico di una forma distratta, la vallata di S.Domenica è rimasta un limite nella memoria dei Ragusani. Meriterebbe essere oggetto di desiderio: la città dovrebbe reclamare le sue vallate.
Dopo aver sfiorato il fianco artificiale di cava Gonfalone, l’asse verticale generatore della composizione attraversa trasversalmente vallata S. Domenica: il terzo approdo. L’intersezione è baricentrica alla valle e l’intervento si frammenta diventando reiterazione puntiforme, potenzialmente ripetibile all’infinito.
Il ruolo: gli infiniti nodi che riconducono la forma al naturale baricentro. La funzione: l’accesso al parco della vallata, la villa, di cui Villa Margherita, situata sul terrapieno che interrompe la cava, sarebbe l’ultima propaggine sebbene sia l’unica porzione esistente.
I tre frammenti si distribuiscono strategicamente lungo uno degli assi principali della composizione (dove Ponte Vecchio giunge alla città traspontina) e alle due estremità, occidentale ed orientale, del vallone ovvero via Natalelli a Occidente e l’intersezione tra la cava e la ferrovia a Oriente. Questa ripartizione delle masse (una delle infinite combinazioni possibili) è motivata dal perseguimento di due obiettivi fondamentali. Innanzitutto c’è la volontà di esaltare l’importanza storica del ponte più antico e del suo ruolo storico: la città riprende coscienza della valle proprio nel primo punto dove l’ha scavalcata. In secondo luogo il bisogno di rendere la vallata attraversabile in tutta la sua lunghezza oltre l’ostacolo della ferrovia, suggerendo la possibilità di un collegamento nuovo e alternativo con Ragusa Ibla e in particolare con Largo San Paolo, quartiere del vecchio borgo che giace in stato di totale, inaccettabile, vergognoso abbandono. Giunti alla quota della villa, i tre collegamenti si raccordano ai percorsi esistenti che si ramificano nella vallata. Il ponte è l’oggetto nel quale si sono materializzati la distanza, il disinteresse e il distacco tra il centro abitato e la valle che lo penetra; il riflesso del ponte sarà il soggetto che percorrerà questa distanza.
Il primo episodio è situato all’estremità occidentale della gola. Così come accade per la stazione, il volume consiste semplicemente e razionalmente in un percorso spezzato in due tratti, frutto della giustapposizione in serie di quattro moduli cubici. Uno di questi sbuca dal sottosuolo, nella piazzetta che costeggia via Natalelli: un oggetto disseppellito riscopre la vallata. All’interno di essi sono contenuti i collegamenti verticali, una scala accompagnata da tre elevatori, che conducono alla quota della vallata, o meglio ad una quota leggermente inferiore. È possibile finalmente vivere l’esperienza della discesa in modo assoluto, misurando con il proprio corpo la distanza tra le due città. Il percorso orizzontale di uscita, completamente interrato, risulta in lievissima pendenza: questo spazio non è solo il preludio al parco, ma anche una galleria espositiva permanente sul tema della tragedia del 1693, il terremoto che dimezzò la popolazione ragusana radendo al suolo l’intera città. Un percorso in grado di contenere tutte quelle testimonianze che possono rievocare e commemorare l’istante precedente (e quello successivo) al sisma, una piccola macchina del tempo che serbi memoria dell’evento più determinante e catastrofico che la città abbia mai vissuto. La leggerissima pendenza del percorso esalta la fuga prospettica dei ponti in sequenza, scenografia avvolgente dello spazio finalmente all’aperto.
Il secondo episodio fiancheggia il Ponte Vecchio, sulla sponda meridionale del vallone. Arrivando da Piazza Cappuccini all’inizio del viadotto, una passerella sulla destra conduce all’interno del nuovo volume metallico, distante circa quattro metri dal ponte, incastrato nel versante meridionale della valle: un secondo reperto. I cinque moduli verticalmente allineati contengono i collegamenti verticali, la scala e i necessari elevatori, che conducono alla quota della villa; la luce non può che provenire dell’alto. Una volta arrivati alla base di tale blocco verticale, si attraversa il quinto modulo, preambolo sepolto allo spettacolo della cava: le latomie, il punto di vista privilegiato ed eccentrico della città soprastante, la prospettiva originale e profondissima dei ponti.
Il terzo e ultimo episodio è un frammento dei due precedenti. Posto all’estremità occidentale della vallata all’intersezione con la ferrovia, il piccolo volume stereometrico si allinea al terrapieno che sorregge il binario, e lo penetra, diventando sottopassaggio pedonale. La semplicità dell’intervento non deve trarre in inganno poiché questo piccolo passaggio è in realtà una nuova porta verso Ragusa Ibla, la città madre e gemella.
La vallata finalmente accessibile, aperta e interconnessa, diventa villa, ma anche nuovo rapido collegamento tra le due Ragusa, che in essa trovano una inattesa relazione sinaptica.
EPILOGO
Il percorso intellettuale potrebbe terminare così: un racconto in tre episodi. Questa conclusione mette a disposizione delle cave e della città gli strumenti necessari per ricominciare a dialogare: infiniti sono gli argomenti a disposizione, l’una sta aspettando l’altra.
Occasioni sprecate: purtroppo la realtà afferma che la soluzione di questa vicenda (ancora) sarà lungi dal venire.