In questo mondo che cosa mai è costante?
Nel fiume Asuka gli stagni di ieri sono le secche di oggi
Kokinshū
Prima descrizione
Si inizia rammemorando e disegnando l’angelo di Cardoso. Angelo stilite, monco della mano destra, le cui vesti di marmo risultano mosse da una inavvertita brezza e con quell’unico piede in equilibrio su una sfera, al pari di tante immagini della sorte. Angelo del popolo, indifeso e protettore, angelo sopravvissuto e angelo tenace. Accennare a questo angelo scampato come fosse una scrittura indecifrata, come una figura – dissimulata, certo - dell’abitare stesso. Che cosa è al fondo abitare se non la costruzione – o almeno la promessa - di una spaziatura tra chiusura e dissipazione per coloro che non “possono restare in nessun dove” – Denn Bleiben ist nirgends. Una cesura, uno strappo, nel manto continuo della phýsis in cui siamo gettati dove sia possibile una colonizzazione di interstizi, un loro dominio. Una discontinuità che è simulacro di protezione e di raccoglimento, di salvaguardia di una intimità. L’unico punto (Aber weil Hiersein viel ist…) dove restare in pace non sia formula consolatoria, allusiva, ma assunzione di un impegno concreto, di una responsabilità attiva. Un programma del fare ed espressione di una tecnica. La casa ovvero il luogo dove ciò che ci circonda può risuonare con maggiore intensità ed energia e dove diventa essenziale l’invito a “dire le cose”, Dinggedicht (le cose sono anche innanzitutto le cose di cui si parla…).
Certo è stato più volte avvertito come questa durata insperata, questa necessità del consistere, possa produrre miracoli non sempre felici: “… forse a causa della luce giallastra, densa, dello schermo formato dai vetri e dalle tende, dalla pioggia che avvolge ogni gesto in una coltre di silenzio, gli esseri nelle case appaiono stranamente statici e, anche quando muovono braccia e gambe, si direbbe che lo facciano al rallentatore, la loro pantomima muta si svolge in un mondo da incubo in cui le cose sembrano fisse al loro posto per l’eternità: lo spigolo di una credenza il riflesso di una maiolica sbreccata, l’angolo di una porta socchiusa, la prospettiva azzurrina di uno specchio.”
E poi quell’angelo scuro di Alberto Savinio. Angelo assai raffinato se paragonato al suo omologo apuano (nonostante i trascorsi al Poveromo del Nostro qui si tratta di un messaggero senza dubbio appartenente alle schiere di città e non di montagna…). Angelo fluttuante non certo travolto e sbigottito dalla storia e dal suo mondo materiato di distruzione e rovina; anzi a ben vedere pare proprio che il suo volo così tranquillo e mai squilibrato sia del tutto naturale, un felice sbracciarsi senza ostacoli nell’aria fine. Scorto dalla cornice di una porta è una sollecitazione al viaggio, allo strapparsi dalla propria condizione, all’avventura nell’Aperto, oltre quella patetica protezione della balaustra in ferro battuto. Un tornare in cammino, un soggiornare nel movimento, nell’andatura, nel ritmo del proprio passo – i luoghi non sono solo stanze ma anche piste, sentieri, vie, ponti. Nel sonno di giorni compressi da abitudini stordenti le sue parole risuoneranno al pari di quelle di Paul Celan “Non leggere più – guarda! / Non guardare più – va’!” (Lies nicht mehr – schau! / Schau nicht mehr – geh!).
Seconda descrizione
Si guadagna l’ingresso da una ripida e stretta scala di marmo, nella fresca penombra di una luce distante. Il tragitto è come un prolungamento della via, con le sue svolte e i suoi accidenti fortuiti, se non fosse per la differenza di temperatura e per il silenzio conquistato. I primi passi nella casa sono guidati e la loro direzione è in accordo con le lunghe tavole di castagno che corrono sotto i piedi; alla destra da una lunga rampa di ferro, alla sinistra da un muro tagliato da una incisione larga quanto un volto: più oltre il profilo parziale di un coprilampada e i libri allineati con cura su scaffali. Una finestra, da qui invisibile, rischiara il fondale a cui stiamo andando incontro – un transito dal bruno all’ocra. La superficie è scandita secondo quattro scomparti, interamente in legno di frassino. Quando due di essi saranno scostati riveleranno gli accessi indipendenti a una cucina e ai servizi. Lo slargo ospita un’amadia lucchese con cinque vasi di vetro, una credenza e un tavolo massiccio di fattura tradizionale con una sedia per ciascuno dei suoi lati.
Il sole del meridione si affaccia attraverso una tenda di lino che, con grazia, stinge lo scuro degli arredi e fa galleggiare la teiera abbandonata sul piano in una nuvola biancastra di luce e polvere. Un passaggio in angolo conduce al soggiorno; è una stanza dal profilo regolare con una porta finestra spalancata su un giardino dominato da un maestoso platano solitario. La stanza è orientata; il suo centro di gravità è il quadrato nero della fornace del camino conficcato in una quinta di mattoni. Il laterizio aggetta in corrispondenza della cappa e una pelle sottile di intonaco ne modifica il colore ma non i rilievi e le irregolarità che ritmano il disporsi della tessitura muraria. La cucina è un cubo di calce grigio pallido ed è sufficientemente ampia da ospitare un posto per la colazione; i fuochi e l’acqua sono inseriti in un mobile rivestito in acciaio il cui sviluppo coincide con la dimensione di una delle pareti lunghe. Sopra di esso una mensola di legno di iroko nel cui spessore trova alloggio l’illuminazione artificiale. Il ripiano è quasi interamente occupato da bottiglie di diversa foggia, manuali e ricettari, contenitori. Due inserti di pietra di Lavagna – a spacco naturale – proteggono la calce. In tutti gli ambienti le soffittature lasciano in vista sia l’ordito delle travature antiche sia la successione delle “sottomisure” in cotto dei solai.
La scala che conduce al primo piano è realizzata con uno scatolare in ferro patinato fissato con due perni al muro maestro; gli scassi nelle pedate sono l’alloggio per tredici intarsi in castagno. Allo sbarco il volume si rivela a doppia altezza con un cielo mistilineo che traduce l’articolazione dei manti di copertura esistenti. Uno scavo trovato nella parete è stato destinato come luogo per sistemare una scultura o una memoria – sempre che non lo si lasci vuoto. La superficie del vano è quasi raddoppiata da un palco la cui struttura – in travi di acciaio dipinte di bianco – risulta parzialmente schermata da tre ampie lastre di vetro acidato. Assieme a una quarta di dimensioni minori sono i diaframmi sottili che separano tra loro le funzioni qui raccolte: disimpegno, spogliatoio, camera da letto, studiolo. Il paesaggio che si squaderna in fronte alle due finestre principali è un teatro domestico fatto di rami e foglie, di case ammassate e piccoli terrazzi, di ringhiere e gronde torte, di conche fiorite e lenzuola stese ad asciugare; sul fondo le linee controllate di un palazzo signorile e un pezzo di cielo. Ogni finestra ha un doppio tendaggio, opposto per grana e nuance, al fine di controllare le trasparenze con maggiore efficacia. Un grande armadio di frassino è stato modellato sulla sezione dell’ambiente e in accordo con gli usi diversi: porta abiti e cassettone. Tutti i piani hanno pavimentazioni realizzate con il medesimo materiale salvo gli ambienti di servizio che presentano una gettata di cemento colorato in pasta. I bagni hanno arredi in smalto bianco e legno di iroko realizzati su disegno; quello padronale ha una piccolissima apertura attraverso la quale si scorge la falda inclinata di un tetto che diverrà lo spazio per accogliere una composizione vegetale traguardo visivo di chi usufruirà della vasca.
La recente sistemazione ha mantenuto l’originario tracciato planimetrico, salvo lievi modifiche; molti elementi di finitura - quali la morfologia dei telai lignei degli infissi e degli stipiti - sono stati calcati su esempi rimasti o comunque su tipi molto diffusi in questa parte di Toscana. I pochi segni rimeditati, di accento diverso ma non eccedenti la misura dell’esistente, non mutilano le tracce qui radunatesi: al fine essi non sono che un’ombra leggera, instabile, sul corpo quieto e paziente dell’architettura antica.