Per valutare l'opera di un architetto i critici cercano, normalmente, di ricostruirne l'excursus formativo affinché possano catalogarlo tassonomicamente nel cassettino di un ideale classificatore linneano. Ma spesso questo tentativo si fa difficile, quando si tratta di includere un'attività dai molteplici interessi, formazioni, obiettivi. Questa riflessione emerge vedendo i lavori di Gaetano Ceschia e Federico Mentil (Ceschia/Mentil associati).
Non si tratta, però, di eclettismo o di puro esercizio speculativo all'interno della disciplina, ma di una vera e propria ricerca nel campo dell'architettura e della propria vita. Un'esperienza che vede la crescita professionale e umana legate indissolubilmente da un comune piacere e da una costante curiosità, capaci di garantire ad ogni singolo lavoro non soltanto un rigore disciplinare, ma anche un plusvalore umano non così frequente nella pratica architettonica.
I due architetti infatti fanno coppia da quando erano studenti allo IUAV e da allora la loro crescita è visibile in più di un centinaio di lavori che spaziano dal design industriale alla progettazione, dall'attività concorsuale all'insegnamento accademico. L'aspetto che colpisce maggiormente, vedendo l'organizzazione dello studio veneziano, è la considerazione del mestiere dell'architetto come un medium attraverso cui veicolare esperienze personali che possano arricchire il proprio lavoro. Considerando l'aspetto dissipativo della professione in tutta la realtà italiana, la mole di progetti prodotti da uno studio è di gran lunga superiore alle realizzazioni - come una ricchezza e non come mancanza. Generosità di idee, di tempo e forze che i giovani stagisti, passati all'interno dello studio affacciato sulla Giudecca, apprezzano ancora prima delle evidenti capacità tecniche e intellettuali.
La loro storia professionale inizia con il progetto di piazza Unità d'Italia a Trieste, concorso vinto e realizzato con il compianto architetto francese Bernard Huet. La piazza principale di una città difficile come quella giuliana ha rappresentato un punto in cui la considerazione del contesto (non esclusivamente fisico, ma soprattutto sociale e storico) è servita a comprendere aspetti che per formazione accademica difficilmente vengono considerati. In questo caso infatti il progetto mirava a restituire una grandeur, l'aspetto di capitale che la città aveva perso a causa delle vicende belliche alternatesi tra il primo e il secondo conflitto mondiale.
L'intervento era finalizzato a nobilitare la superficie della piazza, configurando uno spazio in cui rendere evidente il carattere mitteleuropeo e necessaria la relazione con il mare antistante. Un progetto fortemente controllato, in una città che era (e rimane) restia al cambiamento di usi e abitudini. Leggere questo lavoro oggi può servire per capire, forse per contrasto, il nuovo edificio residenziale che lo studio veneziano ha realizzato sulla collina di Scorcola, rilievo posto a nord ovest del centro urbano di Trieste. Lo stato di fatto presentava una villa - caratterizzata dal suo colore carminio e dalla posizione in prossimità di un passaggio a livello sulla storica linea tranviaria - realizzata mediante addizioni e superfetazioni costruite nell'arco del tempo. La rimozione della preesistenza poneva delle questioni di perdita di riconoscibilità del luogo (l'edificio veniva identificato come la casa rossa) che i progettisti hanno risolto, con il beneplacito della soprintendenza, conservandone la facciata principale e il muro perimetrale lungo i binari. In un periodo in cui l'accondiscendenza spesso viene fraintesa con la professionalità, i due architetti non hanno cercato la facile via del mimetismo, ma hanno voluto porre in relazione dialettica una rovina con il nuovo manufatto in modo da sottolineare le differenze e utilizzare la parte restante dell'edificio originario come un elemento attivo dell'intervento. Il preservato prospetto su via Romagna diventa così un diaframma che, anteposto all'edificio, funge da accesso a uno spazio straniante sospeso tra il passato e un accelerato presente. Uno spazio tra attraversato da un passaggio in quota su cui il blu cobalto della pensilina proietta un nuovo cielo che, accompagnando il visitatore verso l'ingresso, amplifica lo straniamento.
L'edificio è chiuso verso la carrabile via Romagna e la linea tranviaria per aprirsi completamente verso il golfo di Trieste: grazie alle sue ampie vetrate, la vista della città e del mare invade a tutti i livelli lo spazio delle abitazioni, configurandosi come una parete cangiante capace di modificare la fluida geografia domestica. L'articolazione degli spazi interni è ottenuta mediante l'utilizzo di tre unità simplex e tre duplex che generano una sezione sempre differente, capace di inserirsi nel ripido declivio della collina.
Esternamente l'edificio riprende il cromatismo della villa originaria, evidenziando un'orizzontalità già accentuata dalle ampie aperture e dall'aggetto che, sovrastando la rampa di accesso al garage, sembra voler protendersi oltre i limiti del lotto. In questo punto il contrasto tra lo spigolo vivo dello sbalzo e la rientranza della parete dell'abitazione genera un effetto chiaroscurale di notevole intensità, un segno visibile da molti punti del centro cittadino. Muovendosi all'interno di questo gioco di rimandi e scorci visivi è possibile individuare un vero e proprio racconto visuale: il vano scala, in cui le aperture poste a differenti altezze permettono di inquadrare diverse porzioni del paesaggio; il cortile ricavato tra il nuovo edificio e il muro rovina in cui le aperture originarie relazionano spazi diversi, per scala e funzione; all'attico, in cui gli abbaini inquadrano l'orizzonte mutevole che separa i due azzurri del cielo e del mare.
Trieste, Settembre 2007